martedì 27 settembre 2011

Il budino di Heisenberg


budinoaranciaLa meccanica quantistica è complicata. Ma, in ultima analisi, non la comprendo meno di quanto comprenda certe persone e certi tipi di relazioni sociali.
Per lo meno, quando si parla di fisica delle particelle, possiamo sempre aggrapparci a leggi fisiche precise che possono aiutarci a predire il comportamento di un certo <sistema complicato>. Con un buon grado di approssimazione, per lo meno.
Il mondo visto alla grandezza di Planck, cioè circa 1.616 per 10 alla meno 35esima potenza, è misterioso e indeterminato, e non segue più le regole della fisica classica, della relatività e del bob ton.
Le particelle subatomiche sono vigliacche e prive di garbo, barano sulla loro posizione, ignorano completamente il concetto di causalità e si scambiano informazioni tramite entanglement quantistico, cosa che sarebbe ritenuta improbabile anche alla Scuola di Manipolazione Arcana del Thay.
Ciò nonostante, per il principio di indeterminazione di Heisenberg, per lo meno UNA caratteristica di tali particelle si PUO' conoscere con una certa accuratezza. Più precisamente: se si considerano variabili accoppiate come, ad esempio, il moto e la posizione, tanto più si conosce l'uno tanto meno si saprà dell'altra. Si può avere una vaga idea del moto di un muone e della sua attuale posizione. Oppure si può scegliere di calcolare la sua esatta posizione in un dato momento nello spazio, senza avere la più pallida idea di cosa farà e dove andrà il muone in questione: potrebbe ad esempio schizzare a velocità ridicola verso la più vicina nebulosa nel quadrante del Cigno, oppure traccheggiarsi ancora un po' in sala corse. Chi lo sa?
Ecco, per le persone è un po' la stessa cosa: abbiamo sempre una vaga idea della loro posizione, delle loro inclinazioni e idee, di come cambieranno rotta. E più crediamo di conoscere una di queste variabili, più il loro comportamento diventa elusivo, scostante, imprevedibile.
E' un po' come spalare acqua con un forcone. O fare i riccioli alle scuregge.
Poi ci sono persone che sono un po' come il Bosone di Higgs. Se ne presume l'esistenza, intuendola dagli effetti che hanno sulla massa circostante, e si può cercare di stabilire un <range> energetico entro il quale cercarle. Ma da qui a trovarle ne passa di plasma negli accelleratori, e probabilmente alla fine della fiera ci toccherà dare forfait e riprendere in mano il complesso di teorie che abbiamo faticosamente messo insieme in anni di studi passionali e passionevoli, per buttare il tutto con malcelata stizza in un cassetto. E ricominciare da capo: capitolo uno, come si concilia la gravità quantistica con la sensazione di ovo sodo in gola che si prova alle quattro di mattina?
E più si va avanti, più si scartano i bosoni, le stringhe, le gravità a loop, e più il tempo passa. Perchè quello -in culo ai neutrini iperluminali- scorre sempre nel solito verso. Per questo c'è chi non ammette mai i propri errori, e va avanti come un ciuco senza imparare mai niente. Troppa fatica, troppa paura. Troppa vergogna, andare davanti alla comunità scientifica e dire: "Errai".
Meglio, specie in campi così indeterminati, così aleatori, insistere a perorare la propria causa, magari tirando in ballo nuove complicazioni. "Il mio elettrone si comporta così perchè è sotto l'influsso di un antiprotone-sbronzo (invisibile perchè relegato in una dimensione ipercompatta) che la sera lo porta a giro nei bar.". Oppure: "No, magari il mio neutrone sembra un viscido manipolatore senza carica, indifferente e bolso, ma è perchè sono io a trattarlo male e pretendere da lui un minimo di collaborazione".
Stupefacente quante analogie si possano trovare tra la fisica e la vita... in effetti la fisica è la scienza che cerca di spiegare il perchè e il come la materia interagisca con altra materia. E qui l'analogia con le relazioni (o forse dovrei dire: i casi umani) diventa lampante.
Almeno per me.
Se per voi non è così non so che farci.
Certo, ci sono cose complicate, in tutti i campi. E più se ne sa e meno se ne sa, se mi si perdona la ridondanza di monosillabi sibilanti.
Un po' come succede per la questione della portanza.
La conoscete?
Funziona così: la domanda base è. Come fanno gli aerei a volare?
La risposta è: per via della portanza. Ovvero, il profilo alare asimmetrico dei velivoli è fatto in modo da far passare l'aria, che ad alte velocità si comporta come un liquido viscoso, un po' sopra un po' sotto all'ala. La parte superiore dell'ala, essendo convessa, ha un'area maggiore della minore, quindi l'aria che si trova sopra si trova a dover percorrere un percorso più lungo di quella che passa sotto. Fin qui ci siamo, no? Bene: percorso più lungo, a parità di tempo, dato che due molecole di aria non possono separarsi e creare un vuoto, vuol dire maggior velocità dell'aria che scorre sulla superficie alare superiore. Ciò crea un effetto "risucchio", che porta l'aereo ad essere trascinato verso l'alto.
Tutto chiaro. Ce lo avevano spiegato così, alle superiori, no?
La domanda è: perchè allora gli aerei possono volare anche capovolti?



Panico.



Se non trovate la risposta, non vi preoccupate. Al momento, l'insieme delle leggi che governa l'aerodinamica è sempre così complicato che questa può essere studiata solo mediante approssimazioni delle varie formule, inserite in calcolatori poderosi & incarogniti.
Il fatto è, tanto per svelare un po' gli altarini, che oltre la portanza, che è una forza normale alla direzione del vento apparente, dobbiamo considerare la spinta, ovvero la forza di propulsione dell'aereo. E la gravità. E la resistenza dell'aria. E la forma del profilo alare. E l'angolo di incidenza. E tante altre cose. Senza commentare il fatto che in realtà, nel calcolo della portanza, dobbiamo considerare l'effetto Coanda, secondo il quale le particelle di liquido (aria=liquido) si legano alla superficie sulla quale scorrono e ne seguono il profilo, con quelle che stanno "al di sopra" del mucchio che "rotolano" invece più velocemente, generando differenti gradienti di pressione e portando il flusso di particelle a seguire il profilo (in questo caso: alare) anche dopo che se ne sono separate. Un po' quello che succede mettendo il dorso di un cucchiaino sotto un filo d'acqua di rubinetto (provate pure). Il risultato è, almeno a basse velocità, un aumento di pressione verso il basso che spinge l'ala verso l'alto, esattamente il contrario del principio di risucchio che abbiamo descritto poco prima (effetto Bernoulli).
Se non ci avete capito un granchè, rallegratevene, perchè ci capisco poco anch'io e di conseguenza mi spiego male.
Il succo della questione è: non si capisce bene come, ma funziona. Possiamo creare modelli abbastanza approssimati, di grande raffinatezza e complessità, sicuro, ma comunque sempre lontani dalla realtà fisica.
Questo vale per tutto: una profonda conoscenza genera indeterminatezza. Nuove soluzioni portano nuovi problemi. Una risposta ci trascinerà di fronte a mille domande.
Come districarsi in tutto questo? La risposta è boh: ognuno ha il suo metodo. C'è chi costruisce modelli sempre più complessi, in cerca della comprensione più accurata, sapendo che non la raggiungerà mai; chi naviga a vista, come facevano gli aviatori di una volta, che invece di stare a fare tanti calcoli mettevano fuori la manina per sentire l'angolazione del vento apparente e calcolare lo stallo (però poi spesso precipitavano); c'è chi se ne sbatte e va avanti uguale, senza mai capire un' emerita cippa di quel che lo circonda, tanto "ci pensano gli altri". Già.
Io non so che metodo sto usando, probabilmente il primo per certe cose, il secondo per altre, chissà.
Qualcuno ha detto che lo stesso problema si dovrebbe avere anche per i budini, allora, dato che per cucinarli non importa certamente conoscere a fondo la coagulazione termica delle proteine.
Ciò nonostante li prepariamo da secoli (forse).
Tutto molto esatto, tutto molto pratico e zen, come piace a me.
Anche se ho ancora un paio di riserve.
Primo: non servirà certo una buona conoscenza della coagulazione termica, ma per cucinare dei budini MANGIABILI serve perlomeno un buon sistema di approssimazione (che noi chiamiamo <ricetta>) che tenga conto di tempi, quantità e temperature.
Secondo: che, salvo alcune notabili eccezioni, le persone non sono budini.

lunedì 19 settembre 2011

La Nausea








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E' girato il vento, e mi girano le palle. Non sono mai soddisfatto, del resto: la soddisfazione è la piaga che accomuna i poveri, quelli inconsapevoli, mentre io sono un povero consapevole, con una precisa coscienza politica, che esprimo al di là delle mie funzioni con velleitaria e stakanovistica costanza.
Ergo: non sono mai soddisfatto per precisa appartenenza di classe, ma anche per indole personale. Da quando ho undici anni ragiono sul celebre aforisma di Asimov sul "desiderare solo e soltanto ciò che si può ottenere". Un concetto che in un mondo perfetto sarebbe anche giusto. Ma dopo vent'anni di studio, che non me ne voglian il Buon Dottore e le di lui Basette, mi sembra una gran cazzata.
Io desidero, e basta. Che la cosa possa o meno ottenerla non cambia il fatto che la desideri. Troppo facile accontentarsi di ciò che si può avere. Troppo paraculo, troppo vile, non sono strutturato così, e se questo mi causerà problemi, ben venga, ormai ci sono avvezzo.
Gira il vento e porta il freddo e l'acqua, con questi tramonti arancioni su cieli viola malva; porta gli sternuti, le tasse, il Livorno che vince due partite di fila e la prospettiva di un autunno austroungarettiano.
Gira il vento, ma resta sempre, anche di più, una violenta caligine in lontananza, che mi indispone coni e bastoncelli, e non serve a nulla farsi gli occhiali. Non è astigmatismo, è la nebbia di guerra di Von Clausewitz (quel vecchio trombone), quel velo simile a foschia che ammanta tutto quello che non è di nostra conoscenza, tutte le informazioni a metà, quelle vere e quelle false, esponendoci a cariche improvvise e a salve di artiglieria che possono abbattersi sulla nostra (pl. majestatis) pontificia chiorba daummomentallaltro (cfr. Queneau, "Zazie dans le métro").
Strizzando gli occhi ho cercato spesso di vederci chiaro e la cosa mi ha fatto girar la testa, e venire la nausea. E ora questo sento: una profonda nausea di vivere, come quella di Sartre. O per lo meno un po' di pìllone, come si dice qui...
La nausea (o il pìllone) che scaturisce dalla distanza, anzi no, dalla presa di coscienza della distanza. La distanza filosofica e morale tra chi si tiene i paraocchi e va avanti per inerzia, convinto di dare un senso alla propria vita, e chi s'è reso conto che un senso non c'è, e scruta nel'Abgrund terribile di un'esistenza depauperata di uno scopo preciso.
Sartre ne faceva un problema esistenziale, io sono più pragmatico. Che la vita, nella sua accezione più vasta, sia priva di senso o di scopo non mi preoccupa più di tanto. D'altronde, perchè dovrebbe? Cosa cambia?
Però questa consapevolezza può portare a farsi venire degli attacchi di bile, quando si vede che c'è invece chi si affanna a dare un perchè a tutto questo carrozzone, e che indefessamente, come un'ottusa termite, ammassa piccole morule morali nella testa radamente innervata, con la malagurata intenzione di farle fermentare in abbozzi di principi e di idee, tentativo che -va da sè- si risolverà in un aborto senza appello, se va bene, o in un'illuminazione religiosa, se va male. Perchè è inutile: se il cervello ti sfiata come una caffettiera non è colpa di nessuno, ciò nonostante la S.V. è pregata di lasciare ad altri la soluzione dei Complessi Problemi dell'Esistenza.
Un po', per chiarificare, come vedere il Bonolis di turno che fa la sua bella trasmissione dal titolo: "Il Senso Della Vita". Come se quella ridda di casi da baraccone che sciorinano le loro esperienze melense con disgustosa rufianeria fossero detentori della risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto. Macchè, buona fortuna caro Bonolis, se pensi di cavarci qualcosa di buono. La risposta è 42, non c'è molto altro da chiedersi. E' proprio la domanda che è mal posta, in effetti. ("Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda.", Cit.).
Sartre la risolse in modo abbastanza geniale, la questione, almeno sulla carta.
Quel che da senso alla vita sono i momenti perfetti, quelli che non hanno bisogno di spiegazioni.
E qui mi trova -again- d'accordo.
Lo diceva anche quel maccartista di Gerrold: non farti domande se le tue azioni sono efficaci. Qui si potrebbe rovesciare la sentenza in: se non ti stai facendo domande, vuol dire che le tue azioni sono efficaci.
Se vi state chiedendo qualcosa, non fatelo. Se avete dei dubbi, fermatevi. Oppure fate come vi pare, d'altronde non mi date mai retta, basta che poi non veniate a lamentarvi, perchè potrei dirvi "Ve l'avevo detto!": la mia frase preferita.
Odio dirlo, in realtà.
Qualcuno dirà: bè, ma se si fa così non si fa più nulla. Ci sono sempre dubbi, incertezze... mica si può rinunciare a vivere.
E qualcun'altro risponderà: perchè no? Alla fine non è questa la base di quel buddismo che va tanto di moda? E in ogni caso, basta che siate ben coscienti che le cause dei vostri dubbi non potranno mai portarvi a quei momenti perfetti, quegli stati di illuminazione che non hanno bisogno di spiegazioni e che rendono la nausea un po' più dolce. Non c'è verso. Non affannatevi: prendetele per quel che sono. Ovvero: situazioni fallimentari, destinate all'incompletezza. Si vive anche di questo, in qualche modo, bisogna pur strisciare lungo le nostre giornate. Il concetto non è così complicato, se c'è arrivato anche uno come Pieraccioni, che con tutto il bene che gli voglio (poco) certo non è Feynman. I giorni memorabili nella vita di una persona sono due o tre. Il resto, fa volume.
E ora piove, anche, e Bobo Rondelli mi canta di dolori prepotenti e di angosce tridimensionali. Anche a lui l'apparato digerente non funziona più bene, è un caso comune.
Un caso comune a chi usa il linguaggio per raccontare, si tratti di pittori, registi, scrittori o musicisti. Sempre la stessa solfa. L'arte è una via di uscita dalle marcescenze dell'esistenzialismo fine a sè stesso (viene dal greco, vuol dire: saggezza).
Raccontare e raccontare e poi raccontare ancora, fino allo sfinimento, gettare in pasto ai porci mille perle, produrre qualcosa con le proprie mani, inanellare ragionamenti logici o meno logici, esprimere concetti, mescolare idee e riarrangiarle, essere creativi e originali, in ogni caso sempre e comunque con militanza severa ma giusta, come diceva Jean Paul. Lo scrittore è impegnato per definizione. Lo scrittore scrive per la società dei giusti e degli iniqui. Lo scrittore è -voglio esagerare- un eroe odierno, un eroe di guerra.
E l'arte, l'amore e l'anarchia sono le uniche vere guerre di questo secolo.
Tenendo bene a mente queste cose, forse potremo tirarci fuori da questo lago di sangue e merda dove gli altri affogano, coi loro cellulari, i pantaloni da 400 eurI (si dice eurI, non lo ripeterò più) e le piastre per capelli.
Tutto questo val bene la fedeltà alla linea, specie quella che non c'è.
E scusate se è poco.

mercoledì 10 agosto 2011

... en attendant la guerre.



napoleon-na-waterlooLe Caillou, 18 giugno del 1815.
Non riusciva a prendere sonno. Si rigirava nella branda come il più miserabile dei fantaccini, un goffo fagotto dal ciuffo incollato sulla fronte.
L'aria umida, grave, il tanfo della pioggia grassa, la sensazione incombente di disfatta.
Si alzò, cedendo all'insonnia, la compagna assillante dei grandi, la baldracca ottusa dei pensatori.
Sentiva in cuor suo il desiderio di fare qualcosa. Passò in rivista le truppe, così, tanto per passare quelle ore di maledetta veglia.
Sono passati duecento anni, ma so cosa tormentava il piccolo còrso, in quegli attimi. La sensazione di una disfatta incombente, il lieve crepitìo dell'aria, quella tensione palpabile a livello della nuca, quel nodo al petto degno del Necchi che ti dice che sta per succedere qualcosa, che i binari della storia, della nostra esistenza, sono arrivati ad un bivio.
L'ora delle fascistissime decisioni irrevocabili, direbbe qualcuno. In realtà: l'ora in cui la piega del tempo prende una sua quantistica lunghezza d'onda. Oscilla un po', e si stabilizza.
Io soffro dello stesso disturbo. La chiamo, assai poco originalmente: una perturbazione nella forza.
La avverto proprio, la sera prima di addormentarmi o la mattina al risveglio. Sento che qualcosa nel tessuto dello spaziotempo non è in ordine, che ci saranno scosse di assestamento, che si dovrà fronteggiare una grande oscurità che minaccerà di schiacciare quello che abbiamo faticosamente costruito.
Ineluttabile.
E puntualmente arriva.
Arrivò anche per lui, e prese una piega peregrina.
Quel giorno, più tardi, nel pomeriggio, la tonnara umana ed equina che era il campo di Moint-St.-Jean fece oscillare le sorti di svariati esseri umani, i destini ruzzolarono come i dadi di Cesare. La funzione d'onda oscillò tra i suoi minimi e i suoi massimi. Ed infine si stabilizzò: testa o croce, vita o morte, tutto o nulla.
Ma non è questo che oggi ci interessa. Non gli esiti del destino beffardo, non le strade che ci è dato inforcare. Non il bivio in sè di un'esistenza che può essere: miserrima. O peggio.
E' l'attesa del bivio.
Io comprendo il piccolo còrso. Sono simpatetico ai suoi stati d'animo. Anch'io come lui sono emotivo, l'ansia mi rattrappisce lo stomaco, mi viene l'ulcera quando sento il gelido soffio del caso aleggiare sarcastico sulla mia schiena. C'è un lasso di tempo tra questa sensazione e l'azione, e l'esito che le cose prenderanno.
Un magra attesa.
Ed è questo che ci interessa oggi. L'attesa, per chi non sa attendere, è una tortura.
Chi scrive è strutturato male: non è programmato per attendere. Chi scrive è un egocentrico manipolatore, abituato ad avere sempre sotto controllo le cose. Certo, c'è il caso di gestirle male, ma la consapevolezza che il proprio destino dipenda da noi stessi è consolante.
Aspettare che succeda qualcosa, che le cose migliorino o peggiorino, è come la tortura del piano inclinato. Un solo secondo sembrano mille anni.
Il còrso, prima della definitiva disfatta in quella mattanza ondivaga, non sèppe aspettare. Risolse, dopo poco che si era levato dal giaciglio, di attaccar briga con l'irlandese. Da uomo pragmatico e di polso qual'era, era l'unica cosa che potesse fare. Aspettare cosa? Avrà pensato. Già che sòn sveglio, meglio finirla subito qui. Fiato ai cannoni, nella bruma dell'aurora, e che si viva o si muoia nel tentativo di farlo.
E qui entrò in gioco uno dei tanti imprevisti che il fato, quello antropomorfizzato dei greci, mette da sempre tra le ruote delle nostre vicende umane. Un vulcano che erutta, una gran nube di cenere, un'estate piovosa, e la mattina del 18 giugno del 1815 le artiglierie si impantanano, non funzionano, si deve attendere mezzogiorno per poterle utilizzare.
E l'attesa diventa l'unica soluzione.
Ecco: quando attendere diventa l'unica opzione che abbiamo, cosa si fa?
Io non ne ho idea. Nel mio piccolo: languo. Vegeto, lèggo il Tirreno, bevo birra e faccio passare i giorni tutti uguali, cercando di conservare in me, ben visibile, l'obiettivo che mi pongo. Aspetta, mi dico, attendi, non puoi fare altro. Prima o poi il vento girerà, e dovrai essere pronto a varcare il fiume, entrare ad Orleans e scacciare l'inglese dal sacro suolo di Francia.
Certo, se ti chiami Jeanne D'Arc e hai il favore di Dio, il vento gira non appena lo richiedi. Ma se ti chiami Jeanne D'Arc c'è anche il caso che il favore di Dio ti conduca, una volta esauriti i tuoi sacri compiti, sul rogo. Questo succede perchè l'Onnisaccente chiama sempre a sè i suoi prediletti.
Sono contento di essere devoto a Yog-Sototh.
Per i comuni terrestri come noi, comunque, l'attesa può durare una quantità di tempo indefinito. E naturalmente, mentre si aspetta non si può fare altro che aspettare: tautologico ma esatto.
Attendere è un'arte talmente raffinata che qualcuno ne ha fatto la sua fortuna: è il caso di Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, ovvero "il Temporeggiatore".
Per farvela breve, acciocchè non venga accusato di essere prolisso, il nostro Temporeggiatore doveva fronteggiare l'esercito invincibile (o almeno così pareva) di Annibale Barca. Optò per non fare nulla. Dato che Annibale era insuperabile in campo aperto, l'unica scelta saggia era non affrontarlo. E mentre il cartaginese metteva a ferro e fuoco l'Italia e il senato si incazzava, Quinto Fabio Massimo si grattava le verruche e se ne sbatteva allegramente, attendendo che la cosa si risolvesse da sè.
Va da sè che dopo un po' il senato lo obbligò a prendere le armi e scagliare i suoi uomini contro gli elefanti punici, pena una grandinata di nòcchini.
Il Cunctator fece spallucce, disse "Come volete", guidò l'esercito in campo aperto e venne sbaragliato. Questo convinse finalmente i vecchi bacucchi di Roma che in effetti il console non aveva poi tutti i torti a voler attendere, e la storia si rimise in cammino con l'esito che tutti noi conosciamo: il Barca fece il gradasso ancora per qualche anno, bullandosi dei suoi pachidermi, ma alla fine Cartago venne delenda e sulle sue macerie venne sparso anche il sale, a monito perenne che non si fanno girare i coglioni a chi è più tenace e vendicativo di te.
Con tutti questi episodi storici, degni di History Channel, che voglio dire?
Che attendere, come tutte le cose, non è nè positivo nè negativo in sè. E' una cosa che capita di dover fare o che scegliamo di fare noi stessi. Ma è essenziale saper attendere. E' molto importante imparare a farlo, sia che ci capiti per i capricci del caso, sia che ci venga imposto dal nostro Io.
Io non ho mai imparato, ma ci sto provando, con grande difficoltà. Non è nelle mie corde, è come cercare di insegnare ad una mucca a scendere le scale.
Quando aspetto il bus mi incazzo: intrappolato nella marmaglia di plebe, accendo una sigaretta ed ecco che il camionaccio giallo fa la sua strombazzante comparsa dal mondo del traffico.
Quando aspetto il treno c'è sempre qualche avversa condizione meteo, tipo pioggiaevvento, a sommarsi al ritardo e all'incomodo dei vagoni pieni zipilli di neGri.
Quando aspetto che i casi della vita prendano un esito favorevole per le mie bèghe vengo puntualmente disilluso.
Quando aspetto in generale sono a disagio, fremo, vorrei attaccar briga, cedo alle lusinghe dell'azione. E spesso rischio di sbagliare, di rovinare con un gesto avventato tante cose che ho sapientemente costruito... mi mangio il fegato e mi addormento male, svegliandomi peggio.
Non imparo mai niente, questo è un dato di fatto.
O meglio, quasi niente, dato che qualcosa in fin dei conti sto imparando: non sempre le cose lasciate a loro stesse tendono a peggiorare. Non sempre agire, in un senso o nell'altro, è buona cosa. Come ci insegnano i buddisti, l'inazione può essere un pregio. Poi loro, da bravi religiosi, vanno un po' oltre, e sbagliano, ma tant'è...
E, cosa assai rilevante, oserei dire centrale: nell'attesa non si deve essere passivi.
Mai.
C'è sempre qualcosa da fare. Prepararsi, raccogliere informazioni, tenersi pronti. Tenere sempre ben presente ciò che si vuol raggiungere, la nostra mèta, il nostro bivio, e cercare di essere pronti ad inforcare la strada giusta non appena si verificherà l'occasione propizia. Duro compito poterla riconoscere, questa occasione. Ma c'è, statene certi.
Farsi trasportare, nell'attesa di un'estate migliore, dalle vane migrazioni del caso, dalle transitorie disposizioni dei nostri sensi, può farci smarrire la rètta via, distoglierci da quello che realmente vogliamo, e farci accontentare di questa attesa insulsa, che diventa un'unica ragione di vita.
Ci si abitua ad aspettare. Che le cose vadano meglio, che gli altri ci amino o ci odino, che succeda qualcosa senza che l'abbiamo richiesta. E così ci facciamo piacere ciò che non ci piace. E così ci facciamo scegliere invece di scegliere noi stessi.
Ça c'est pathetique.
Un giorno sarà troppo tardi per rimpiangerlo.
Io da parte mia aspetto. Aspetto che il vento giri.
Aspetto che il terreno si secchi.
Ma a mezzogiorno, tre colpi d'artiglieria risuoneranno nitidi, ad indicare che la pazienza è finita, e che si va allo sbaraglio.
Con lo stesso animo del còrso, sapendo di andare magari incontro ad una fine ingloriosa.
Ma, perdìo, almeno una fine che ci siamo scelti.
E se sarà Sant'Elena, almeno sarà un posto caldo e soleggiato in cui passare il resto della vita.

mercoledì 6 luglio 2011

Affinità e divergenze tra la compagna Gertrude Stein e Noi

Gertrude_Stein3Una rosa è una rosa è una rosa.
Ecco, credo che alla fine una volta detto questo si sia detto tutto, qui potrei chiudere il post.
Ci sono frasi pessime, parafrasando Guccini, frasi bellissime e frasi "ma perchè non l'ho detta io?". Questa è una frase di quel tipo: ma perchè non l'ho detta io?
Solo che io, essendo assai più prosaico, avrei stabilito che la merda è merda è merda.
Questo merita una spiegazione. Oggi sono stato illuminato da una mia amica, la quale mi ha candidamente informato delle meccaniche della selezione naturale. Io sono di estrazione razional-meccanicista e darwiniano per religiosa convinzione. Per me i canini ci hanno condotto al vertice della civiltà, checchè ne dicano i vegetariani (dio li faccia ammalare del morbo di Refsum), Marco Aurelio ha sempre ragione e le immutabili leggi della fisica sono l'ultimo appiglio a cui ci si può attaccare quando tutto sembra crollare come una pila di panni sporchi. Per questo non capisco mai gli esseri umani, per questo non mi piacciono: perchè sono illogici e irrazionali. Oggi ne ho avuto la conferma. Il motivo per cui si scelgono sempre persone di cacca, in un modo o nell'altro, è perchè cerchiamo di tramutare la merda in oro. Questa è stata l'epifania a me trasmessa da Santa Luisa.
Ora: le cose sono due, o cerchiamo di tramutare l'altrui merda in oro, oppure ci sentiamo merda noi stessi, e cerchiamo di tramutarci in oro tramite il contatto con altra merda. Il risultato non cambia.
Vi sarete accorti che stasera sono assai più scurrile del solito, e per quelli di voi più sensibili consiglio senz'altro di rivolgersi alla lettura di Geppo, di modo che la vostra coscienza non ne verrà turbata. Per chi ha il fegato grosso come quello di M. Dick invece, consiglio di seguitare la mia prosa elegante e variopinta.
Dopo questo vanaglorioso inciso, posso affermare che per quanto mi riguarda, se una rosa è una rosa, la cacca di cervo è e resterà nei secoli cacca di cervo. A molti questo sembrerà tautologico, ma per me racchiude una sacrosanta, innegabile e fondamentale verità.
Ovvero.
Capita di accontentarsi, capita di aver paura, capita di tutto. Vediamo le cose come attraverso un paraocchi da cavallo, ci facciamo piacere le situazioni più spregevoli, ci abituiamo e ci innamoriamo dell'idea di essere amati. Non c'è nulla di peggiore, di più pericoloso e di più deprimente. Vado oltre: se fosse per me ci sarebbe una legge a proibirlo. La merda è merda: le persone che non valgono una cicca masticata non valgono una cicca masticata; mettetevelo bene in testa, non potete cambiare il prossimo più di quanto possiate comprendrere davvero la fisica quantistica, e fare a cazzotti con la realtà vi farà rompere le ossa e sprecare tempo.
Questo affannarsi mi abbrutisce, ecco perchè tento di arginarlo; questo continuo picchiar testate sui vetri come i ronzoni che scaccio ogni minuto dalla mia bucolica magione mi stressa la borsa scrotale, e più di tutto: mi fa infuriare come il peggiore dei giannizzeri alla vista di Vienna questo continuo svilirsi di belle persone dietro a emeriti sacchi di letame.
Ed ecco che le solite malelingue avranno il loro bel da fare a  commentare sarcasticamente il fatto cruciale: egli non copula, qui sta la ragione della sua acidità
Io invece vi invito a rovesciare la medaglia: egli è inacidito, dicevano di lui i bardi, per questo motivo non copula. Preferirei perdere l'uso delle mani, degli occhi e delle basette prima di confondere il mio augusto cranio con la prima subumana di passaggio.
Esser fatti così genera stizza e fa viver malissimo.
Difatti il mio periodo bizantino continua, costretto in una casa che somiglia sempre più ad un lupanare, più dissoluto degli augusti dopo Diocleziano, datosi che la decadenza è l'unica attività decorosa in periodi di cacca di cervo, e che l'automiglioramento, come disse Tyler Durden, è solo masturbazione. Mentre l'autodistruzione...
E i cuoricini fasulli, le frasi da baci perugina, i facili entusiasmi, le peregrine migrazioni degli animi e delle gonadi, ben poco mi illudono: tutto è merda, muoia Sansone, muoiano anche i filistei. L'autoconvinzione non fa per chi ha studiato Ekman e Borg, per chi riesce a vedere all'interno di queste sciatte disposizioni di animi superficiali ed inclini alla miopia, sofferenti di una cifosi temporale che li porta, volenti o nolenti, ad inclinare sempre e comunque sul piatto di merda che il fato gli propina, incuranti delle loro possibilità e meriti, della loro grandezza e della loro gloria.
Ma sto diventando prosaico senza motivo, e me ne compiaccio, dato che le parole sono importanti.
In tutto questo baillamme di concetti, in questa ridda di significati e significanti, non c'è molto più della frase da cui tutto è scaturito: la rosa è rosa, la merda è merda.
Ma una piccola divergenza c'è, tra la compagna Stein e Noi (uso il pluralia, sì).
Come ebbe a dire chi già citai, l'essenziale è invisibile agli occhi. Non si vede bene che col cuore.
Per chi di voi avrà abbastanza pazienza di seguirmi ancora, l'incanto di questa frase verrà svelato tra un paio di settimane. Per chi è impaziente, e non è un difetto, dico solo questo.
Per quanto riguarda la compagna Stein, si può dire che non per tutti una rosa è una rosa, e non per tutti -purtroppo- la merda è merda.
Però, guardare col cuore non vuol necessariamente dire che ci si deve lasciar trasportare dal flusso degli eventi, dal turbinio di quella che è solo una passione dei nostri accenti. Così facendo ci si infatua di noi stessi e delle nostre tare, e si cerca un tappo a misura, o ci si fa bastare ciò che si ha. E' vedere questo? E' forse l'espressione di millenni di evoluzione che ci hanno portato ad essere la specie dominante del pianeta? Se non lo credo io, fidatevi, non è la verità.
Lasciarsi trasportare è una prerogativa delle meduse, la miopia affettiva lo è delle persone bolse, vecchie e disperate. Provo un moto di commozione per quei gas che -chi più saggio di me- ha definito "nobili", nobili perchè rifiutano di legarsi ad individui di bassa lega, gas come lo xeno, l'argon, il radon. Gas inerti, dirà qualcuno, ma che hanno in sè un'innegabile forza d'animo che non li porta a condividere la loro preziosa nube elettronica completa col primo idrogeno che gravita nella loro orbita.
Non si vede bene che col cuore, torno a dire, e mi ricordo degli insegnamenti di un grande Sensei, che mi addestrò a guardare di fronte senza mettere mai a fuoco, allo scopo di parare gli strali dell'avversa fortuna e di combatter -arma in pugno- un mare di avversità che giungono da ogni direzione. La vista inganna, anche quella del cuore, anche più di quella degli occhi: dura lotta è saperla domare e renderla strumento e non guida. Per questo, credo, è nato il detto: Beati monoculi in terra caecorum. Beati gli orbi, nella terra dei ciechi. Perchè qui viviamo, nella terra dei ciechi, e anche un occhio a funzionalità ridotta può essere viatico di salvezza e di stabilità, come fa il mio occhio destro. Il sinistro ormai, anche se dotato di una colorazione invidiabile e di un fascino magnetico, ha la stessa miopia di molti cuori e di molte menti. E qui si giunge alla considerzione finale, dato che sono le 2, ora cara a Napoleone, ed inizio ad accusare il sonno.
Spesso il cuore ha bisogno di occhiali.
E di un buon analista.

giovedì 2 giugno 2011

"Gare de Coatelan", sonata per papaveri e majali.



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Gare de Coatelan, Bretagna.
Un posto che forse non vedrò mai.
Ci sono solo due tratti che mi avvicinano a Michael Collins, l'eroe dell'indipendentismo irlandese.
Il primo, è la tendenza a risolvere i conflitti avvalendosi del caos e della distruzione totale. Non mi si dipinga come un uomo troppo mite: è soltanto la ragionevole consapevolezza delle conseguenze che frena le mie azioni, ma se fossi nato in un periodo storico diverso da questo avrei avuto senza dubbio la tendenza a dirimere le controversie spada alla mano o fucile in spalla.
La seconda è quella vile malinconia che mi prende nel vedere le stazioni.
Diceva Collins, almeno nel film, "Mi piacciono i treni, mi fanno pensare a tutti i posti che non vedrò mai". Ecco, questo è uno dei tarli della mia esistenza. Pensateci un secondo. Quante vie ci è dato percorrere, quanti bivi inforchiamo, quante strade scegliamo. E quante ce ne lasciamo dietro. Quando ero giovane, secoli fa, ci pensavo spesso... Affacciandomi alla finestra vedevo un mondo smisurato perdersi all'orizzonte, ero consapevole della marmaglia che lo popolava, e sapevo che al di là della linea della vista, ben oltre quanto mi era dato di vedere dalla curvatura di questo nostro sasso dotato di atmosfera, esistevano: città. Cose, persone ed animali, come nel gioco delle iniziali. E mi chiedevo: quante cose non conosco? Mi rispondevo: tutto. Adesso, in questo preciso momento, nella mia vita ci sono dei buchi che verranno riempiti, là dove dovevano esserci immagini, posti, persone, concetti e quant'altro. E starà a me farlo: la responsabilità del percorso da seguire mi disarma. Un po' quello che diceva il Pianista sull'oceano, Mr.Novecento. Ecco, il succo è quello, chi ha letto il libro mi capirà in pieno, chi ha visto il film leggermente meno e chi non ha fatto nè l'uno nè l'altro è pregato di cambiare Blog, che non sono qui a pettinare le acciughe e non posso sempre spiegarvi tutto.
E' passato il tempo, alcune caselle si sono riempite, e spesso in maniera sorprendente, lo dico senza esagerazione. Posti meravigliosi, persone indimenticabili. Nel frattempo i capelli si sono dati al maquis, la misantropia si è nutrita della mia boria, complice la quantità di inutili sempliciotti che mi si sono incastrati tra le ruote con costanza indefessa, e io continuo a pensare le stesse cose.
Cosa c'è nel mondo, come avrebbero potuto andare le mille strade che inforchiamo? Cosa c'è nella mia vita al posto della Gare de Coatelan? Certo, vivere così è faticoso, ma non conosco altri metodi, e mi tengo questo.
E' un po' come il paradosso del gatto di Schroedinger e la questione dell'Universo a molti mondi, cosa di cui un giorno mi deciderò finalmente a scrivere per destabilizzare definitivamente la vostra coscienza. Ma non è questo il momento, e devo imparare a non divagare, o il mio aulente pObblico mi abbandonerà prima di subito.
Ergo. Riprendiamo da dove eravamo.
Sono passati gli anni, e sono sempre al punto di partenza, mi trovo a specchiarmi nel vetro della finestra, guardando i tetti sconfinati di Firenze (in realtà, non più di un paesone), chiedendomi dove sono stato portato dalla marea, dove andrò a parare, e quante cose ancora aspettano che riversi su di loro la mia bile e il mio affetto. In più, ormai c'è anche il tempo di guardare indietro e di fare i conti col proprio passato, e questo è complicato e doloroso, lieto e struggente. Una bella ridda di emozioni per chi, come me, non ha mai imparato l'arte di gestirle.
Ed ecco che in tutto questo Amba Aradan (per tornare al corretto etimo della montagna) l'unica amica che mi viene in soccorso è l'immaginazione, la fantasia, quella vigliacca subdola e spietata che da sempre mi crea problemi e li risolve.
La sperimento ogni sera prima di addormentarmi, e poi sogno i nazisti, la mattina al risveglio e mi incazzo, e il pomeriggio, mentre passeggio per le vie di una città deserta per il giorno di festa, mentre le nuvole si addensano minacciando pioggia, mentre il vento di buriana soffia ai miei piedi foglie già cadute dagli alberi nei primi di giugno e mentre individui inconsapevoli, piccoli PNG di color verde-neutrale, mi passano accanto senza curarsi minimamente del mondo.
Io invece mi curo. Mi curo di ogni singola pietra, di ogni refolo di brezza, di ogni sguardo incrociato per caso. I care, diceva il presidente neGro, mi interessa, anche se mi nutro di disprezzo.
Citando Guccini: la fantasia può portare male, se non si conosce bene come domarla. E questo è vero. Ma costa poco, val quel che vale, e nessuno ti può impedire di adoperarla.
Economia, leggerezza e imprevedibilità. Mancanza di controllo e splendida anarchia. Nella fantasia siamo tutti ladri e puttane, re e rei, cacciatori di nonmorti e pere spadone.
E' così essenziale saper porre un freno a tutto questo? Non potrebbe essere la risposta all'imprevedibilità del destino umano, alla forzata cagionevolezza del nostro vagare?
Chi lo sa... di sicuro molti hanno costruito su di essa la loro fortuna, altrettanti la loro rovina.
Io nel frattempo mi crogiolo beato nell'immaginario, sogno sogni vividi e meravigliosi, e cerco di imparare da loro.
Perchè il punto non è tanto immaginare e sognare, quanto cercare di capire cosa la nostra immaginazione fervida, quanto i nostri sogni più reconditi ci stiano cercando di comunicare. La Gare de Coatelan... magari dovrei comprare un biglietto del treno ed andare fin lassù. Vedere coi miei occhi, assaporare con la mia lingua, annusare col mio copioso naso. Sentire che in qualche modo una compenetrazione con la realtà è possibile, consigliabile, inevitabile.
Seguendo le orme di due grandi aviatori, immaginari entrambi a loro (diversissimo) modo.
Il primo, tale Saint-Exupery, il più grande visionario del novecento, il poeta volante, che scrisse le cose più belle che siano mai state scritte sulla responsabilità affettiva, e che sparì, ingiustamente abbattuto da un tedesco che se ne pentì per il resto della vita, nelle acque di quel mare che aveva sorvolato mille volte senza un solo colpo in canna, mentre intorno a lui infuriava il massacro.
Il secondo, un maiale che osava pilotare idrovolanti, che preferiva essere porco che fascista (cosa che condivido, dovessi morire mille morti), che sapeva che un maiale che non vola è soltanto un maiale.
Pensateci, ogni tanto, e cercate di spiccare il volo, o rimarrete a grufolare nella terra.
Sapendo sempre, portando con voi l'assoluta certezza, che qualsiasi percorso scegliate, qualsiasi rimpianto vi smembri il cuore, i papaveri continueranno a fiorire, incuranti di voi, indefessamente, con costante abitudine e poetica malignità.
Il resto, vi sia concesso.

giovedì 5 maggio 2011

The hitchhiker's guide to the misanthropy

hitchhiking
Come Falk in quel film, mi nutro controvoglia e aspetto il malore notturno.
Che però, per fortuna o purtroppo, a seconda della stima che nutrite nei miei confronti, non arriva: ergo, mi alzo per lamentarmi.
Come un dragone dell'esercito absburgico sono completamente vestito in tre secondi netti, lavato in otto e pronto a riversare il mio disprezzo per l'umano consesso prima ancora di aver girato la maniglia della porta, che mi porta (scusate la ridondanza) a cappuccinoeppezzo dopo 4 infide e rypide rampe di scale.
Fuori la gente assomiglia a quell'animale stupido dipinto da Nixon, un serpentone asimmetrico che si snoda per le strade della città, indifferente ed incline alla rabbia sociale, tenuto a freno da consuetudini salse e prevedibili come un posto di blocco della polizia fuori da una festa di ribibibò.
Non me ne faccio un cruccio: li conosco. Conosco loro e le loro abitudini, so cosa mangiano per colazione e dove vivono.
E prima o poi gliela farò pagare.
La gente non si guarda in faccia. Puoi passare ore in giro per la città e non ricordarti di un volto. La gente non si guarda in special modo quando deve comunicare. Distoglie lo sguardo, si fissa i piedi in cerca di un aggettivo da abbinare alla sciarpina alla moda, guarda il muro, il cane, quello che passa, una borsina che spicca il volo verso lidi migliori.
Guardare in faccia è considerato maleducazione, anche perchè così si potrebbe scoprire in tre balletti cosa pensano gli altri veramente di noi e viceversa.
Invidia, rabbia, frustrazione, noia, gelosia, disagio, vergogna, abbiamo impiegato gli ultimi cinquecento anni di evoluzione a cancellare dal contesto sociale le spiacevolezze, salvo poi vederle riaffiorare quando meno ce lo aspettiamo come una macchia d'unto mal lavata.
A che pro? Cui prodest, diceva chi era più saggio di noi...
La gente non conosce la prossemica, e questo stride un po' con quanto detto prima, segno che il lavoro di rimozione e mascheramento funziona fin troppo bene ma parte da basi superficiali.
Ci sono persone capaci di appiccicarsi alla tua spalla mentre aspetti il verde (gioia del semaforo, il grande regolatore a tre tonalità di noia), capaci di scegliere il posto accanto al tuo in un vagone totalmente vuoto, capaci di violare quei pochi centimetri di zona intima quando aspetti il caffè ad un bancone di un bar completamente deserto. Capaci di strusciarsi come il più ruffiano dei felini nelle file del supermercato.
Il supermercato poi, se non fosse che distribuisce cibo e birra, lo eviterei come e peggio degli autobus.
La mattina ti aspetti di sentir chiamare al citofono il dottor Lustro in geriatria, d'urgenza. E nel supermercato si confermano le teorie fisiche che postulano l'inversa proporzionalità tra vicinanza del prossimo e igiene personale.
Come a dire: più ti vengo vicino, più il mio odore assomiglierà a quello dell'intera orda di tartari del Gran Khan, con tanto di bistecche lasciate frollare sotto la sella dei puledri.
Oibò.
Ma a volte mi dico troppo misantropo, mi scopro -una volta all'anno, più o meno- di buon cuore, e decido di dare una possibilità al genere umano.
Alla fine, come disse Gian Maria Volontè in un bel film di Damiano Damiani, sono pure sempre hombres come noi. Puzzano, sono sciatti, ma sono sempre hombres.
E sia, allora, in un impeto di madreteresismo ecco che scatta la Buona Azione.
Ne ho fatta una lunedì. E sto sempre aspettando che il karma mi ripaghi, ma per ora mi ha preso soltanto a calci nel deretano.
L'occasione si presenta al distributore, dove mi fermo sempre a far benzina.
Una vecchia sdrucita, in apparente affanno, mi chiede un passaggio verso Firenze.
Nicchio.
Mi si affollano nella mente le seguenti immagini.



  1. La vecchia infilata in un sacco di rifiuti condominiali, di quelli da 3 millimetri, tanto chi vuoi che ne denunci la scomparsa?





  2. Un plotone della Gestapo che chiede i documenti alla vecchia, la trova colpevolmente giudea, e la passa immediatamente a fil di spada (confusione tra Gestapo e Lanzichenecchi)





  3. Io che, novello caruso Pascoski, colpisco la vecchia con un sinistro al fegato degno di Ray Leonard.





Ma sono in buona, e mentre Tamerlano mi urla nelle orecchie di legarla al mio cavallo d'acciaio e di trascinarla fino a Livorno per insegnarle l'educazione, mi scopro a offrirle un passaggio (con una certa riluttanza), non senza aver mormorato a fil di denti qualcosa di molto simile a una maledizione in Aramaico.
Mai una fìa, mi viene alla mente, e la monto in macchina.
La vecchia trota ha almeno il buongusto di starsene zitta mentre ascolto a tutta gargàna gli Airborne (3 volte), e anzi a metà strada inizia a bicciare come una bascula e si assopisce.
Per un attimo spero/temo che muoia lì, sul sedile (appunto) del morto, e mi chiedo se non sarebbe meglio disfarsi del corpo in una piazzola di sosta piuttosto che avvertire la autorità.
Ma la vecchia stronza si riprende e si mette a cinguettare amabilmente.
Alla fine, ecco che si palesa la Conca del Rinascimento, con le sue fontane e i suoi giardini pensili, ed io smòllo la cariatide in un autogrill, dato che la tapina deve cercare un passaggio per Bologna (vituperio delle genti).
Gracchiando una specie di ringraziamento si dilegua senza lasciarmi una mezza lira per un gallone di benzina o un tallero bucato per aver pagato l'autostrada.
L'unica cosa che resta è un sottile odore di tomba fresca che prorompe dal sedile anteriore, e la sensazione di aver fatto qualcosa di completamente inutile.
Bè, mi dico, ho fatto qualcosa senza ricevere nulla in cambio. Il karma mi ricompenserà, Esso è così buono e giusto.
Resto intruppato nel traffico, scelgo una scorciatoia fasulla che mi fa quasi perdere, arrivo in ritardo, la macchina continua a puzzare e io mi sento come se fossi stato fregato da uno di quei venditori porta-a-porta che ti sfilano i soldi con la sinistra e ti lasciano l'enciclopedia della Marmotta Marsupiale con la destra.
Del karma non v'è traccia.
Neppure ora, che sono passati numero quattro giorni.
E mentre spero che l'anziana scroccona, delle cui peripezie mi sono volutamente disinteressato per tutta la durata del viaggio, sia stata addentata nell'ileo osteoporotico da un Pitbull affetto da rabbia, penso che il karma abbia voluto regalarmi una profonda lezione.
Altro che essere misantropi.
Non si deve fare mai niente per nessuno, specialmente per gli anziani in difficoltà.
E possibilmente, si dovrebbe cercare con tutte le nostre forze di morire giovani e di bell'aspetto.


martedì 12 aprile 2011

Look left

   Summer





Nacqui, come David Copperfield, poco dopo la mezzanotte di un venerdì (o almeno così mi hanno detto) di fine Luglio. Prodigio letterario e prodigio infausto, se si dever dar conto a Dickens, ma alla fine credo che non si debba poi molto, essendo Dickens un vecchio reazionario ottocentesco.
Di tutte le maledizioni che le vecchie levatrici avrebbero potuto scagliare, l'unica che ha attecchito è quella che riguarda l'estate.

E' così, sono sensibile come un fusibile per natura, sfortunato per inclinazione e solitario per abnegazione, e l'unica stagione che concepisco è l'Estate, che si intervalla -come tutti sanno- con l'altra stagione umana che è "I morti".

E adesso Zefiro torna e 'l bel teNpo rimena.

O bravo.

E con esso: raffreddori, fortori, sciatica, mosciume, sonnolenza, appetiti della carne e y dei cvli sugli scalini.

Tant'è, è la ruota cosmica, il bel fluire delle stagioni, e sono contento di vedere finalmente un pò di verde fare capolino sugli alberi, tanto per ricordarsi che siamo sopravvissuti al peggior inverno da quando mi dovetti umiliare -coi piedi nella neve- davanti al castello di Canossa.

O era un altro? Ormai non ricordo più molto bene.

Resta il fatto che il risveglio della natura è mirabile, e io lo miro dall'alto del mio quarto piano, sorseggiando una guinness fresca e spipazzando come un afghano.

Un pò come Enrico IV, che dopo essersi prostrato tre giorni e tre notti, durante una tormenta di neve nel peggior Gennaio che si rammenti, davanti al papa vigente (ecco chi era!) bèn risolse di tornare in Germania a preoccuparsi dei fatti suoi e della di lui successione.

Gli uomini tutti d'un pezzo sòn fatti così, si inginocchiano per comodo, ma poi se gli fate girare le pallette, come successe col buon Enrico, adottano il piano B: genocidio e testate negli zigomi. Infatti dopo la seconda scomunica il nostro caro imperatore sacro e romano non si sgomentò più di tanto: umilato si era già umiliato, visto che la cosa non rendeva più di poco si decise nel mettere a ferro e fuoco Roma, deporre il Papa e tornarsene -avanti che arrivassero i Normanni- a svernare nelle langhe al di là del Reno, in pace con sè stesso e con la sua autorità.

Tutto questo a che pro? Per dirvi di quanto malsopporti il freddo, l'inverno e le umiliazioni.

Noi uomini di un'altra schiatta un'offesa non la dimentichiamo mai, e nutro una profonda stima per il Sacro Romano Eccetera, per come ha devastato l'Urbe e per come ha risolto il mal di testa usando la decapitazione.

Altri tempi.

Ma tornando a bomba, Zefiro è davvero tornato. Ha impennato gli alberi sotto casa mia (informazione tendenziosa & fasvlla) di verde e di smeraldo, ha fatto tornare le gore sotto le ascelle e ha ignudato le signorine.

Bravo Zefiro, che tutti gli anni riede a farci starnutire e girare le palle.

Perchè se da un lato questo bel tempo che ritorna mi mòlce il còr, dall'altro mi fa star male.

E il perchè lo sapesse chi lo sa... ma non lo sa neppure lui, dev'essere una qualche sorta di nostalgia per qualcosa che non ho già avuto ma che mai avrò.

So solo che mi sovviene spesso di pensarci quando viaggio -per esigenze di studio- su e giù, qua e là per la Litoranea e attraverso la Bucolica fino a Firenze e ritorno.

E' la triste condizione del migrante: qualche decennio fa Mr. Miller mi contattò per un suo progetto che si chiamava "Travasi di bile di uno studente pendolare", ma poi si risolse per far morire un commesso viaggiatore. A volte il destino.

Ma tant'è.

E' cambiato il proscenio, questo sì, il teatro, le lontane quinte inaridite attraverso le quali sfrecciavo mesi fa sulla mia Torpedo Nera (poti poti) sòn diventate verdi, un'esplosione di lussureggiante e irriverente beltà.

Quanto mal s'accorda tutto ciò ad uno stato d'animo indefessamente prono sul rancore e sulla vendetta trasversale, quale la natura m'ha dato d'avere.

E allora, l'altro ieri, mentre correvo ai cent'all'ora verso la disfatta, m'ha colto un'epifania.

Ed ho voltato la testa alla mia sinistra.

Vi consiglio, miei signori, di farlo solo quando siete su di un rettilineo ed a bassa velocità, o rischierete (come me) di grattugiare i fianchi della vostra vettura sulla staccionata che divide la strada dal mondo degli Umani.

Ma così vedrete anche voi.

Perchè mentre si guida, si tiene sempre la testa incollata sul centro o sulla destra, e così facendo si evitano speronamenti, d'accordo, ma al prezzo di perdere metà della bellezza del creato.

Anzi, qualcosa di più di metà, perchè la bellezza sta a sinistra per vocazione ed ideologia, c'è poco da fare.

Io ho vòlto la testa al di là dello specchio, ed ho rimpianto subito di non aver avuto con me la fida macchina fotografica, che non so usare ma che uso lo stesso, come chi canta male sotto la doccia o chi sgraziatamente cucina per sè stesso.

Strappi di fiori gialli come l'oro di Mida su campi del verde della gioventù, nuvole che si addossano caparbie a colline indifferenti nell'azzurro della loro lontananza, auto che ci incrociano senza saperlo, cariche di storie inedite che non conosceremo mai, borghi sorti dal nulla di un barlume di ricordo, e la strada che ci viene incontro come un tappeto alla corte del Gran Muftì.

Tutto questo solo con un piccolo movimento inconsueto, che quasi mai facciamo.

E' dove non guardiamo mai, dove non abbiamo mai vòlto lo sguardo, che si cela un barlume di bellezza e di verità che mai avremmo sognato di vedere.

E poco importa se subito dopo la strombazzata del Tir guidato da un cafone moldavo ci riporta alla realtà della nostra corsia: volgere lo sguardo, sia pure per un minuto, val bene la messa.







































mercoledì 6 aprile 2011

Happiness is overrated

__sad_bunny___by_lolita_art
I lavacri sono una manna dal cielo. Senza lavacri sarei morto già diverse volte, sia fisicamente che intellettualmente. Le abluzioni ristorano il corpo e restituiscono la giusta dimensione ai pensieri. Insomma: mi piace fare la doccia, e chi ha passato del tempo con me sa che ne faccio numerose e che nel frammentre canto. E penso.
L'amore per i lavacri ha due radici: etrusche per quanto riguarda la cura del corpo, pontificie per quella dell'anima.
D'altro canto, mentre la mia gente costruiva acquedotti e terme qualcosa come tremila anni fa, il resto dei barbari d'oltremare e oltrappennino si lavava i denti con rametti di abete e costruiva case di cacca di cammello.
Ma non volevo parlare dei miei bagni. Volevo solo dire che, dopo diversi anni di assenza forzata dalla scrittura (informazione esagerata) sono tornato a produrre un pensiero critico proprio sotto la doccia. Come sempre, del resto.
Pensavo alla felicità.
E mi dicevo che l'ignoranza è un bene, almeno per me. Mi spiego meglio: l'ignoranza è il bene più grande delle persone con un minimo di senno e la condanna degli idioti.
Mi spiego ancora meglio, per quelli di voi ottusi come il fondo di un baule.
Chi è scemo è scemo. Fine. Buon per lui, si dice qui. "Bòn per te che non capisci una sega", anzi, è la locuzione giusta in provenzale (cfr. Jean De La Gavette, "Je te donne moi le bacon", 1443).
Quindi chi se ne va per il mondo gonfio di aria stantia come un barile in disuso, senza curarsi di ciò che lo circonda, sarà felice o triste a seconda di ciò che gli capita e che lo tange, ad esempio una martellata sul pollice mentre appende un quadro di Gattuso o un molare scheggiato mentre addenta un panino cipolla & calcinacci. Che bella vita, mi viene da pensare, per queste persone che si bevono ogni bischerata.
Per chi non ha invece i tratti dell'uomo di Cro-Magnon le cose sono più difficili. Sapere è una condanna, intuire una doppia condanna, avere ragione delle proprie nefaste intuizioni una sciagura vera e propria.
Quante volte vi siete sentiti raccontare cazzate e avete soprasseduto? Quante volte avete preferito ignorare cosa stesse succedendo, perchè il solo pensiero vi faceva star male? E quante volte avete provato quella inesorabile certezza che le vostre pessime sensazioni sono -in verità- assai prossime alla realtà? Diceva un famoso gobbo: a pensar male si fa peccato, ma si indovina. Ecco, c'è poi chi di questo ne ha fatto una scienza quasi esatta.
Tendenzialmente, il ragionamento vale per tutto: dai rapporti politici internazionali al coniuge infedele. Potete -con un pò di impegno- cavarvi da soli il ragno dal buco, una volta individuato il buco (e non a tutti riesce: è la cosa più difficile, trovare il buco). Basta un pò di buona volontà. Non ci vuole il professor Ekman, e neppure si deve studiare Borg e la sua prossemica. Basta andare dietro all'istinto, se l'avete abbastanza allenato, e potrete capire se le persone intorno a voi vi raccontano immani cazzate, se nascondono qualcosa per non farvi star male, dove sono, cosa fanno e perchè lo fanno. Basta averci l'inclinazione, e io, a dispetto dei miei studi, ce l'ho sempre avuta. Ma non l'ho mai assecondata molto, perchè.
E' molto, molto faticoso.
La gente, e qui ci metto anche me e voi, mio aulente pObblico, ha un quantitativo di energie limitato e non può sempre stare all'erta per ogni cosa. E allora ecco che succede il miracolo dell'ignoranza.
Mogli con mariti palesemente fedifraghi che negano l'evidenza, genitori che si bevono le storie su vento e motorini di figli drogati e con gli occhi arrossati, matrone che si inginocchiano a mangiare il corpo di cristo e nefasti personaggi che -nel buio della cabina elettorale- mettono croci su partiti-azienda di dubbia moralità.
Allora mi dico: l'ignoranza è un bene. Ma non quella finta di chi non vuol vedere. Quella vera degli stolti.
Per chi ha un grammo di sale in zucca non ci sarà mai la vera felicità.
Fatevene una ragione, è così. Smettete di dibattervi come pesci nella padella della Gran frittura.
Se siete felici o siete stupidi o non state tenendo conto di qualcosa.
Certo, perdìo, ci sono momenti di felicità per tutti. Ma quanti saranno mai? Quanto potete rimanere felici?
Io, personalmente, credo di essere stato felice tre volte dalla mia pubertà, intendo veramente felice, e contento forse una dozzina. Mai per più di tre o quattro ore di seguito, comunque.
Forse è solo un cruccio mio, ma mi sento di essere in buona compagnia se ripenso a quanti prima di me hanno dato fiato alle penne per scrivere aforismi sulla felicità che suonavano più o meno come quello di Schopenhauer. Il pendolo tra il dolore e la noia. O la storia dei due ricci. O la concezione della vita di Allen: l'esistenza è divisa in due categorie, l'orribile e il miserrimo. E allora ci va bene il miserrimo.
Il punto infatti è proprio qui, in ultima analisi. La ricerca della felicità, costituzionalmente approvata, è una favola come quella di Babbo Natale (spero di non aver lettori preadolescenti, o mi vedrò costretto a metter mano agli avvocati). L'unica ricerca possibile è quella di non essere tristi. Perchè in effetti questo ci resta, come esseri umani: se considerate bene la situazione, se vi guardate davvero dentro, potete candidamente ammettere che felici lo siamo stati raramente, e tristi molto più spesso e spesso in conseguenza di ciò che ci rendeva felici. E allora cerchiamo di non essere tristi, "basta che funzioni" diceva il genio cineasta ebreo. La ricerca della medietà, della situazione che non ci renda malinconici, che ci faccia stare meno male, che ci dia il minor numero di rimpianti.
E cerchiamo di fare i conti con l'infelicità, che al contrario della felicità è ben popolata.
Lo sapeva bene un altro grande personaggio, che è stato il mio Virgilio alla scoperta dei sentimenti umani. Sto parlando di Charlie Brown.
E voglio lasciarvi con questa immagine. Si tratta di una vecchia striscia, forse degli anni settanta, una delle striscie del periodo di Natale, quando a Charles veniva la depressione da festività (le altre due grandi depressioni erano associate a San Valentino e al campeggio estivo, mentre la riapertura della scuola non causava al vecchio nessun problema: peculiare come Charles soffrisse solo nelle situazioni di gioia estrema -almeno per gli altri-) ho perso il filo.
Ma il succo è: in questa striscia qualcuno augura a Charlie Brown un felice anno nuovo. Passano due vignette con lui che passeggia a testa china. Poi si gira e fa: "A proposito... che cosa vuol dire 'felice'??".
Ecco, questo è il succo.
Charlie Brown è triste perchè SA. E' depresso perchè sa di essere triste. Perchè è il bambino più intelligente e sensibile, e di conseguenza è il bersaglio degli altri bambini, quelli "felici". O che almeno credono di esserlo.
Perchè poi, lo sono davvero?
Linus, con il suo Transizionale mai risolto, Lucy, arrogante e sociopatica e costantemente depressa, Schroeder, il monomaniaco del piano, incapace di relazioni umane... e potrei andare avanti così per chiunque.
Loro non lo sanno, di essere infelici, quindi sono contenti.
E' come il calabrone che vola perchè non sa che non potrebbe farlo.


E adesso non preoccupatevi se vi ho depresso, e non me ne vogliate.
Come già ho scritto, la felicità è un concetto sopravvalutato.
Ricordatevi questo, e sarete felici.




mercoledì 2 marzo 2011

On the road (again)



P1000144Sì, almeno credo di sì, credo fermamente che si possa raccontare un pò di tutto, avendone la voglia e l'inclinazione naturale: anche un bel prato verde partendo da una fredda rotaja.

Lasciandosi Claudio il benzinajo alle spalle, si entra in Valacchia.
Almeno questa è l'impressione.
Sulla sinistra, un'occhiata fugace che rischia di farmi schiantare sul furgone carico di stronzi targati A.S. (Pallavolisti? Calciatori? Criceti?) che mi sorpassa a mille all'ora: un macabro residuato vegetale, un abete vecchio e rincoglionito a cui è stata tranciata via la testa, pelato e secco, una grottesca ripetizione dell'albero della cuccagna, carica di nulla. E già ti aspetti, sotto quel cielo plumbeo (immagine inflazionata) che un Vojvoda feroce e sanguinario vi conduca alla rovina e al pubblico ludibrio decine di turchi, di azab, di spahi, catturati per le pendici dei colli e destinati all'impiccagione, sempre pei colli glabri e mal lavati.
La luce è primordiale, la strada una via affettata di vedere tutto, sussiegosa, altera e sbilenca nel suo peregrinare.
Si sale e si scende, attenti ai lupi, attenti alle cariche di akinji che cercano di stanare fieri transilvani dalle pendici dei monti.
Poi, com'è come non è, è come andare a Nord, anche se ci dirigiamo a Ovest, il sole basso negli occhi che si sdoppia nelle nuvole a formare un'orifiamma a forma di clessidra.
Dio lo maledica.
Andando a Nord si scolletta, e il paesaggio cambia.

Un sorriso che squarcia il velo tetro delle nubi, il sorriso del Soldano di Bisanzio cantato da Chesterton, quello che insanguinava la foresta della sua barba, e gli eroi dei balcani diventano fantasmi.

Si arriva in Slovenia. La boscaglia dopo Monte Lupo (di rumena memoria) declina in una più nordica e serafica foresta slovena, carsica e pneumatica.
Un camion di fronte a me mi rammenta di quando, lì sì davvero girovagando per il carso, mi trovai, assieme alla mia ineffabile navigatrice, stampato dietro un TIR in salita, la peggiore delle condizioni per chi cerchi di viaggiare senza ritardi, francobollato al suo retrotreno su di un'erta che tagliava -senza neppure lasciare la cicatrice- tutta l'Istria, scivolando tra albero e albero, tra una baita e una scuola deserta.
Nove lune mi ci sono volute per sorpassarlo, in quella strada larga come i fianchi di una dodicenne. Non lo rifarò. Mai più.
Ma dopo Monte Lupo la strada è larga, si sfreccia via senza accorgersene, e il bisonte della strada resta dietro di noi mentre posso contemplare alberi: radi, e nuvole: sfilacciate.



Gli alberi vanno in cenere, l'aria fredda diventa più calda.



L'ennesimo passaggio di tunnel mi regala un nuovo cambio di paesaggio.
Come quando passi da Genova, e da un tunnel all'altro non piove più, anzi, esce un sole palermitano, per poi restituirti -il tunnel seguente- la stessa livida scrosciata d'acqua che ricordavi.
Ecco le dolci colline del Sussex, la bella campagna d'Inghilterra, con la sua aria congelata, la luce polare, il clima felicemente mite quando non piove, e le colline che dolci si montano l'un l'altra, liberando all'aria il più bel verde che si possa immaginare dopo quello d'Erin.
Qui purtroppo il verde non c'è. Non ce n'è molto, almeno, anche se mi sembra -a costo della seconda sbandata- di vedere un vecchio lord attraversare un campo, nei pressi di uno scannafosso, con la doppietta aperta sottobraccio e il setter di cent'anni, macchia fulva e guizzante blandamente controluce che trotterella tra i suoi piedi e l'orizzonte a cavallo della collina, felice come solo un cane che caccia il fagiano e si scioglie nel sole.
Ci sono campi di mais, però, campi sterminati, secchi alla luce che si nasconde dietro le prime alture, che restituiscono il loro raccolto a chi l'ha partorito. E mi devo fermare, mentre Renan mi canta le sue radici, per cercare le mie.
Riparto attraversando le tumulilande, dove tornano vivide le impressioni di qualcosa di antico, fantasmi sospirati fuori dalla terra arata, cumuli verdi nel piatto niente che promettono tesori e maledizioni, a cui non è saggio avvicinarsi (ce lo ricorda Aragorn) e arrivo a uno stralcio di civilizzazione da ignorare, che mi chiede il pedaggio, il guiderdone, la decima.
Dai a Cesare ciò che Cesare userà per costruire le arterie del suo Impero, e passa oltre.



Cambia quella bella sensazione di comodità. La sensazione di una parte da protagonista in questa piccola guerra umana lascia spazio alla familiarità dell'essere in una gabbia di comando.



Le colline azzurre, sull'estremo occidente della terra di mezzo, dimora dei nani dei monti, nella tranquillità tra il mare e le pianure di Brea e della Contea.
Tant'è quello che si staglia ai miei occhi: il blu elettrico di monti carichi di metallo, scavati al loro interno da generazioni di bipedi affrettati, con la più bella pianura del mondo srotolata ai loro piedi come il tappeto dell'Aga Khan a ritorno dalla campagna d'Europa. E più lontano: il mare, che scintilla senza molta convinzione al sole che ormai se ne è andato, che si agita inquieto come nei miei sogni illuminato da un cielo scuro e minaccioso.
Mentre passo via, veloce come una cambiale in scadenza, e sfreccio ignorando volutamente i limiti, mi accolgono gli scoppi degli eterni fuochi d'artificio delle palme sulla mia sinistra.
Bentornato a casa, bentornato per restarci.



E così mi sento: come un pesciolino che nuota nella sua vecchia palla di vetro, cercandone un altro.



E così mi sento di dire: che -in ultima analisi- i posti sono sempre gli stessi.
Come le persone.
Cambiano le prospettive e le sfumature, alla fine è tutto una questione di luce e di volontà.

mercoledì 16 febbraio 2011

Quando piove ci si bagna

charlie_brown_in_rain
Diceva così il vecchio maestro zen. Inconfutabile, inappellabile e fuor da ogni sordido giro di ragionamento e parole. Ma la gente, si sa, gradisce assai lo zen da taschino, quello che si tira fuori per manomettere la motocicletta o per sopportare la suocera.
Lo zen e l'arte di piacere alle persone. Sì, come no, proprio un'arte...
Lo zen e l'arte del tiro al piccione.
Lo zen e la scomparsa di Majorana.
Ma andiamo con ordine, e diamo ciò che si deve dare a Cesare.
Stamattina -come tutte queste mattinate salse di febbrajo- non è stato facile levarsi dal letto. Sognavo: cani, anzi un cane. E volevo vedere come andava a finire. Poi i primi timidi raggi di luce si sono fatti strada tra le nuvole, tra le persiane, tra le coperte e tra le palpebre, e io, commosso da tanto impegno, ho deciso per una risoluta scrollata alle coperte.
Fuori pioveva. Una giornata uggiosa, per dirla col Morto, già finita prima di iniziare.
Il tempo dedicato alle abluzioni e alla colazione mi ha consentito di apprezzare un certo qual filo di rugiada (in realtà: acqua piovana) che faceva sembrare la finestrella del bagno, con le sue sbarre, simile a quella della prigione di Cagliostro, dove fu rinchiuso (giustamente, quel fanfarone) dal mio caro trisavolo.
Ma le visioni pseudorosacrociane sul religioso erano indotte -e lo sapevo- dalla lettura di quel borioso di Eco. Dioceloconservi.
Una tragica spremuta, un caffè, ed ecco che ero tornato alla mia dimensione: Napoleone ad Austerlitz, che contempla con occhio serafico il campo di battaglia che si stende come un tappeto di caparbietà ai suoi possenti piedi.
Dalla finestra: l'eco lontana di colline nascoste dalla bruma della mattina, la cara nebbia di guerra che Von Clausewitz amava tanto raccontare, e più vicini palazzi anneriti dall'acqua, e sotto persone, PNG dolenti, sommersi dalla scostanza della meteorologia.
Un traffico fine a sè stesso, un baccanale di ombrelli, colonne intere, batterie di macchine con le ruote prese nel fango mentre tentano l'invasione della Polonia via Le Cure. Perchè, punto primo, quando piove si va in macchina.
Poco importa se devi andare a comprare le sigarette o ad accompagnare il figlio a scuola, l'acqua è nemica dell'uomo, e ci si intasa allegramente sul viale, strombazzando lieti.
Anzi, magari, in realtà si strombazza seccati, anche un pò stizziti, senza considerare il fatto che una delle cause dell'ingorgo siamo proprio noi, quindi inutile far mùggire la mucca: nessun'uomo è un isola pedonale, quindi non chiederti mai per chi suona il clàcson: esso suona sempre per te.
Il traffico stradale fa sempre un po' il paio con quello pedonale: pochi eletti, arditi corpi scelti tra la soldataglia motocarrozzata, tentano le impervie vie dell'acciottolato per intrufolarsi tra le linee, armati di ombrelli variopinti ed inutilmente ingombranti.
Il risultato: una ridda di cerchi colorati, una tonnara di passanti (radi) che nonostante l'esiguità del loro numero si intralciano l'un l'altro, agganciando maglioni a collo alto e cercando di cavare gli occhi al prossimo con quei dispositivi demoniaci che sono le stecche dell'ombrello.
Dico io: possibile che nel 2011 si riesca a progettare una sonda che raccatta cacca ancestrale e silicati assortiti sulla superficie di Marte e non si possa generare un ombrello che non rischi di trasformare chi passa in un Achab da marciapiede?
E intanto la buriana soffia, Moby Dick ci schizza con le sue ruote da 600 pollici e noi iniziamo a districarci stizziti ed arrabbiati per le vie pedonali che ritenevamo (hèlas) sicure.
Poco da farci: anche qui la colpa è nostra, nessun'uomo eccetera eccetera, e ci si risolve ad invocare sottovoce le qualità più terrene della madonnina, mentre salamelecchiamo cenni di scusa ed emettiamo borborigmi che dovrebbero suonare come convenevoli più o meno diretti al nostro prossimo.
Pèèèèèèèèè, mi richiama alla realtà (in questo esatto momento) l'orda di bestie cilindrate, mentre il capobranco giallo ed enorme, l'ATAF alfa, guida la rivolta, inceppato in una curva troppo stretta.
E' il miracolo della natura umana: andarsi ad infognare con le proprie mani.
Sia lode a Gesoo, brindo a questo.
E come se non bastasse, ci si mette anche la natura.
Che, se non ce ne fossimo accorti, sta piovendo. Arriva l'umido, arriva l'arietta malsana, e ci porta in regalo una calza piena di starnuti, malditesta, reumi e giramento di coglioni immotivato e preventivo.
Tutto questo contemplo, dalla mia collina, col tricorno bel calcato sui capelli radi.
La spalla mi duole, perchè ho la periartrite e la periartrite esce fuori col cambio di stagione. E un moto di commozione mi unisce a quelle vecchie ciabatte che alla prima nuvoletta si sentono bloccare la cervicale, accusano il dolore al callo e si pisciano addosso.
Siamo una generazione di meteoropatici, affibbiamo al barometro il variare del nostro scostante umore e impiccheremmo Torricelli per i dolori che sentiamo alle vituperate membra.
Come se fosse colpa sua.
La pioggia trasforma la nuda terra, calda e fragrante, madre di tutte le cose a noi note (come il caffè e la tecnocrazia) in vile fango, in spumentosa motaggine, in quella pappetta composta dai nostri fiori blu, e non me ne voglia il signor Q.
I cani sanno di chien mouillè, le cacche si liquefanno sui marciapiedi, i bar si riempono di gente umidiccia e trasognata, di auto e di ombrelli ne abbiamo già parlato, e sopra tutto ci resta un'indefinita sconsolata sensazione di inadeguatezza e di perdita.
Ma lo sapete perchè?
Perchè quando eravamo piccoli, se pioveva non ci facevano uscire a giocare.
E siamo rimasti tutti chiusi in casa a guardare la pioggia che rigava le finestre, senza poter farci nulla.
Perchè quando pioveva la gita della domenica era annullata.
Perchè quando pioveva non si andava al mare.
Perchè quando pioveva bisognava tapparsi e il meglio che ci poteva capitare era di uscire per forza, magari per andarsi a comprare un maglione di lana (di quelli che bucavano anche con sei magliette sotto) o per farsi trapanare un dente dal dentista.
Perchè siamo stati traumatizzati, e ormai non si vede più il vero assunto fondamentale, il succo della questione.
Volete lo zen da taschino?
Ve lo do io: inutile l'ombrello, inutile la macchina. Inutile correre tra un balcone e una tettoia, per evitare il fortunale.

Quando piove ci si bagna. Tutto qui.

martedì 8 febbraio 2011

Lost in Rijeka

 Nuova immagine bitmapDiceva Hattori Hanzo, quello di Kill Bill interpretato da Sonny Chiba, non il condottiero del XVI secolo, che la vendetta non è mai una linea retta. E' una foresta, e come in questa è facile perdersi, dimenticare la strada. Da dove si è partiti, dove si deve arrivare. Per questo Beatrix si prepara una mappa, un foglietto con su scritto chi deve ammazzare, e via nel sole.
Un pò minimalista come mappa in effetti. E infatti, se proprio si deve essere attenti al succo, e io credo che lo si debba, si può definitivamente dire che Beatrix in questa foresta ci si perda allegramente.
Sì, certo, sa da dove parte. Sì, certo, sa dove vuole arrivare (e ci arriva). Ma il percorso che si sceglie spesso è molto più importante del traguardo che si vuol raggiungere, come già ebbi a dire.
Ma mi piace citarmi, mi dà quel tocco di non so che.
Insomma, per non tornare a fare il Divago, alla fine pure lei se lo chiede... mi sarò mica persa?
Ci voleva una bella cartina, ci vorrebbe a tutti una bella cartina, per districarsi nei casi della vita.
Con tutti i PNG che dobbiamo incontrare, tutte le strade che si diramano, tutte le scelte e le biforcazioni che (come vedremo in seguito, e lo vedremo perchè è importante) creano infiniti universi possibili.
Roba da perderci la bussola. Appunto.
O la Trebisonda, che altri non era che il punto di riferimento di quesi turcheschi che navigavano nel Mar Nero, sia destinata al fallimento la loro genìa malsana.
Peculiare come si utilizzi sempre un modo di dire che concerne l'orientamento, quando si vuol dire che non siamo più lucidi.
Ma le peculiarità non sono appannaggio di tutti, hèlas, e alla fine ci tocca aver a che fare con una miriade di ronzoni impazziti che ci sciamano intorno, picchiando capocciate nel vetro della nostra indifferenza, mentre con una mano annojata ci facciamo largo tra cotanta insensata cocciutaggine.
In mancanza di una mappa o -per i più nerd- di un bel navigatore che ci guidi per le tenebrose valli delle vendette trasversali e per i solatii altipiani dell'amore (cuore-fiore-odore, e col romanticismo per oggi s'è dato), ci dobbiamo accontentare della segnaletica della vita.
Che per carità, esiste, ma è ben nascosta.
E oltretutto, non sempre serve: come dicono i Nippi, una cosa è conoscere la strada giusta, un'altra cosa è imboccarla.
Come mi successe a Fiume, sia stramaledetto il suo assessore al traffico e sia stramaledetto anche D'Annunzio.
Non so quanti di voi siano stati in quel formicaio, ma io sì, ci sono stato, ed è per puro caso che sono riuscito anche a trarmene e che ora posso scrivere questo articolo, perchè se non fosse stato per un colpo di fortuna ora sarei sempre lì, avrei imparato il croato e mi chiamerei Braskic. Che poi non sarebbe nemmeno male.
Ma dicevo: provate ad entrare in Fiume e a seguire i cartelli. Diciamo quelli per Spalato. Bene, il primo vi dirà di andare a sinistra, e voi: sinistra. Poi uno vi dirà di andare a destra, e voi: destra. Poi più nulla per tre incroci, alla fine ancora sinistra, voi girate speranzosi, e vi trovate -con grande perplessità della vostra navigatrice- in una strada chiusa nei Ghiaccioni Slavi, con tre giostrai sfregiati che guardano con sospetto la vostra targa inequivocabilmente italiana e quindi: coloniale. Ma io mi trassi d'impaccio grazie alla mia avvenenza e al mio savoir-faire, e se volete vi racconterò anche come, un giorno... è una storia lunga e c'entrano una girandola magica, tre topi scodati, un vecchio drago arteriosclerotico che si pisciava sui sandali e la guida provvidenziale di una Fatina del Moccio in stato di grazia.
Quello che questa storia ci insegna è: nella vita, come nella strada, non sempre ci sono cartelli a indicarci cosa fare, e anche se ci sono ricordatevi una cosa.
La mappa non è il territorio, e la ics non indica sempre il punto in cui scavare. Ricordatevi questo, e già sarete a metà dell'opera ed eviterete di annaspare come i ronzoni umani di cui prima.
Direte voi: sì, bè, non è di grande aiuto.
Ma nessuno ha mai detto che questi articoli debbano essere di aiuto. Così è, se ve ne cale, come avrebbe voluto scrivere Guglielmo S., se solo avesse saputo l'italiano.
Cercate i segni giusti, i segnali che vi vengono dati, e da lì cercate di capire cosa vogliono dire.
Un cane rabbioso vi sta aspettando al varco davanti al portone di casa vostra? Segno che dovevate rimanere a mangiare una pizzetta fuori. Trovate per la strada una cartolina dal cosmodromo di Bajkonur? Ecco la risposta alla domanda "Dove andiamo in vacanza?". Sognate "la mana"? Giuocate il 5. Più facile di così. Come diceva anche Bohr: non ci credo ma funziona.
Certo, funziona per voi, che la prendete per ischerzo.
Ma funziona anche per tanti tapinastri che la prendono sul serio. Perchè se avete letto bene, "a buon imprenditor eccetera eccetera".
Infatti, cari Lettori miei (dopo 11 articoli inizio a prendermi un po' di confidenze, e siatene contenti), se si deve prendere in esame la segnaletica della vita e tornare alla metafora della strada, due sono le categorie di persone che di tale segnaletica non hanno bisogno: i ciclisti e gli aviatori.
I primi m'hanno sempre raggelato il sangue. Quei pazzi scriteriati, incassati su quelle carrette a due ròte, che stanno ritte solo per l'intervento diretto di qualche diavolaccio sudanese o della macumba brasiliana, riescono ogni volta a farmi trasalire.
E' più forte di me: ho provato anche a divertirmi -da bimbo- con quegli arnesi. Ho provato a camuffarmi, a sembrare normale, a considerare esilarante lo sfilarmi sul brecciolino, ad ingòllare moscini a velocità garganesche, ad entusiasmarmi per una derapata e a stupire le pupe con impennate che mettevano a rischio il mio epistrofèo... macchè. Appena giunta l'età della maturità, a 10 anni, ho abdicato le due ròte e mi sono dedicato alla contemplazione degli spazi siderei.
Ma c'è a chi piace: sicchè.
I secondi invece m'hanno sempre affascinato. Certo, tra comprarsi una bicicletta e un Bf109 è più facile la prima. Anche se è meno facile che ti rubino il secondo se lo leghi a un palo, quindi tutto ha una sua praticità.
Poi ci sarà di sicuro tra voi qualche furbastro che mi dirà: "Bè, la bicicletta sta su per intervento del demonio, e l'aereo no?". Eh no, cari pipy, l'aereo sta su per un meccanismo semplicissimo: ossia la portanza. Che si manifesta grazie al fatto che il profilo alare fa sì che l'aria che passa sopra debba percorrere più tragitto di quella che passa sotto l'ala, quindi debba andare più veloce, quindi crei una depressione che fa sì che l'aereo venga risucchiato su, nell'empireo celeste.
Facile, no? Ci arriverebbe uno zuccone qualsiasi. E mentre sto sempre qui a scervellarmi sul come mai la bicicletta stia impiedi e l'aereo no (informazione falsa), mi sovviene il perchè mai ho parlato di segnaletica della vita in termini metaforici e del perchè poi ho sollevato questo vespajo parlando di biciclette e aviogetti, andandomi a perdere anche ME per le tortuose strade della letteratura.
Facile anche questo: perchè biciclisti ed aviatori sono futuristissimi, ed essendo futuristissimi sono le uniche due categorie che possono allegramente fare a meno della segnaletica, quella metaforica e quella anche pratica. E il perchè ve lo dico subito: i primi semplicemente la ignorano, cercando di stirarvi sulle strisce con nonchalance.
I secondi invece non ne hanno proprio bisogno.