lunedì 19 settembre 2011

La Nausea








mban844l
E' girato il vento, e mi girano le palle. Non sono mai soddisfatto, del resto: la soddisfazione è la piaga che accomuna i poveri, quelli inconsapevoli, mentre io sono un povero consapevole, con una precisa coscienza politica, che esprimo al di là delle mie funzioni con velleitaria e stakanovistica costanza.
Ergo: non sono mai soddisfatto per precisa appartenenza di classe, ma anche per indole personale. Da quando ho undici anni ragiono sul celebre aforisma di Asimov sul "desiderare solo e soltanto ciò che si può ottenere". Un concetto che in un mondo perfetto sarebbe anche giusto. Ma dopo vent'anni di studio, che non me ne voglian il Buon Dottore e le di lui Basette, mi sembra una gran cazzata.
Io desidero, e basta. Che la cosa possa o meno ottenerla non cambia il fatto che la desideri. Troppo facile accontentarsi di ciò che si può avere. Troppo paraculo, troppo vile, non sono strutturato così, e se questo mi causerà problemi, ben venga, ormai ci sono avvezzo.
Gira il vento e porta il freddo e l'acqua, con questi tramonti arancioni su cieli viola malva; porta gli sternuti, le tasse, il Livorno che vince due partite di fila e la prospettiva di un autunno austroungarettiano.
Gira il vento, ma resta sempre, anche di più, una violenta caligine in lontananza, che mi indispone coni e bastoncelli, e non serve a nulla farsi gli occhiali. Non è astigmatismo, è la nebbia di guerra di Von Clausewitz (quel vecchio trombone), quel velo simile a foschia che ammanta tutto quello che non è di nostra conoscenza, tutte le informazioni a metà, quelle vere e quelle false, esponendoci a cariche improvvise e a salve di artiglieria che possono abbattersi sulla nostra (pl. majestatis) pontificia chiorba daummomentallaltro (cfr. Queneau, "Zazie dans le métro").
Strizzando gli occhi ho cercato spesso di vederci chiaro e la cosa mi ha fatto girar la testa, e venire la nausea. E ora questo sento: una profonda nausea di vivere, come quella di Sartre. O per lo meno un po' di pìllone, come si dice qui...
La nausea (o il pìllone) che scaturisce dalla distanza, anzi no, dalla presa di coscienza della distanza. La distanza filosofica e morale tra chi si tiene i paraocchi e va avanti per inerzia, convinto di dare un senso alla propria vita, e chi s'è reso conto che un senso non c'è, e scruta nel'Abgrund terribile di un'esistenza depauperata di uno scopo preciso.
Sartre ne faceva un problema esistenziale, io sono più pragmatico. Che la vita, nella sua accezione più vasta, sia priva di senso o di scopo non mi preoccupa più di tanto. D'altronde, perchè dovrebbe? Cosa cambia?
Però questa consapevolezza può portare a farsi venire degli attacchi di bile, quando si vede che c'è invece chi si affanna a dare un perchè a tutto questo carrozzone, e che indefessamente, come un'ottusa termite, ammassa piccole morule morali nella testa radamente innervata, con la malagurata intenzione di farle fermentare in abbozzi di principi e di idee, tentativo che -va da sè- si risolverà in un aborto senza appello, se va bene, o in un'illuminazione religiosa, se va male. Perchè è inutile: se il cervello ti sfiata come una caffettiera non è colpa di nessuno, ciò nonostante la S.V. è pregata di lasciare ad altri la soluzione dei Complessi Problemi dell'Esistenza.
Un po', per chiarificare, come vedere il Bonolis di turno che fa la sua bella trasmissione dal titolo: "Il Senso Della Vita". Come se quella ridda di casi da baraccone che sciorinano le loro esperienze melense con disgustosa rufianeria fossero detentori della risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto. Macchè, buona fortuna caro Bonolis, se pensi di cavarci qualcosa di buono. La risposta è 42, non c'è molto altro da chiedersi. E' proprio la domanda che è mal posta, in effetti. ("Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda.", Cit.).
Sartre la risolse in modo abbastanza geniale, la questione, almeno sulla carta.
Quel che da senso alla vita sono i momenti perfetti, quelli che non hanno bisogno di spiegazioni.
E qui mi trova -again- d'accordo.
Lo diceva anche quel maccartista di Gerrold: non farti domande se le tue azioni sono efficaci. Qui si potrebbe rovesciare la sentenza in: se non ti stai facendo domande, vuol dire che le tue azioni sono efficaci.
Se vi state chiedendo qualcosa, non fatelo. Se avete dei dubbi, fermatevi. Oppure fate come vi pare, d'altronde non mi date mai retta, basta che poi non veniate a lamentarvi, perchè potrei dirvi "Ve l'avevo detto!": la mia frase preferita.
Odio dirlo, in realtà.
Qualcuno dirà: bè, ma se si fa così non si fa più nulla. Ci sono sempre dubbi, incertezze... mica si può rinunciare a vivere.
E qualcun'altro risponderà: perchè no? Alla fine non è questa la base di quel buddismo che va tanto di moda? E in ogni caso, basta che siate ben coscienti che le cause dei vostri dubbi non potranno mai portarvi a quei momenti perfetti, quegli stati di illuminazione che non hanno bisogno di spiegazioni e che rendono la nausea un po' più dolce. Non c'è verso. Non affannatevi: prendetele per quel che sono. Ovvero: situazioni fallimentari, destinate all'incompletezza. Si vive anche di questo, in qualche modo, bisogna pur strisciare lungo le nostre giornate. Il concetto non è così complicato, se c'è arrivato anche uno come Pieraccioni, che con tutto il bene che gli voglio (poco) certo non è Feynman. I giorni memorabili nella vita di una persona sono due o tre. Il resto, fa volume.
E ora piove, anche, e Bobo Rondelli mi canta di dolori prepotenti e di angosce tridimensionali. Anche a lui l'apparato digerente non funziona più bene, è un caso comune.
Un caso comune a chi usa il linguaggio per raccontare, si tratti di pittori, registi, scrittori o musicisti. Sempre la stessa solfa. L'arte è una via di uscita dalle marcescenze dell'esistenzialismo fine a sè stesso (viene dal greco, vuol dire: saggezza).
Raccontare e raccontare e poi raccontare ancora, fino allo sfinimento, gettare in pasto ai porci mille perle, produrre qualcosa con le proprie mani, inanellare ragionamenti logici o meno logici, esprimere concetti, mescolare idee e riarrangiarle, essere creativi e originali, in ogni caso sempre e comunque con militanza severa ma giusta, come diceva Jean Paul. Lo scrittore è impegnato per definizione. Lo scrittore scrive per la società dei giusti e degli iniqui. Lo scrittore è -voglio esagerare- un eroe odierno, un eroe di guerra.
E l'arte, l'amore e l'anarchia sono le uniche vere guerre di questo secolo.
Tenendo bene a mente queste cose, forse potremo tirarci fuori da questo lago di sangue e merda dove gli altri affogano, coi loro cellulari, i pantaloni da 400 eurI (si dice eurI, non lo ripeterò più) e le piastre per capelli.
Tutto questo val bene la fedeltà alla linea, specie quella che non c'è.
E scusate se è poco.

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