mercoledì 10 agosto 2011

... en attendant la guerre.



napoleon-na-waterlooLe Caillou, 18 giugno del 1815.
Non riusciva a prendere sonno. Si rigirava nella branda come il più miserabile dei fantaccini, un goffo fagotto dal ciuffo incollato sulla fronte.
L'aria umida, grave, il tanfo della pioggia grassa, la sensazione incombente di disfatta.
Si alzò, cedendo all'insonnia, la compagna assillante dei grandi, la baldracca ottusa dei pensatori.
Sentiva in cuor suo il desiderio di fare qualcosa. Passò in rivista le truppe, così, tanto per passare quelle ore di maledetta veglia.
Sono passati duecento anni, ma so cosa tormentava il piccolo còrso, in quegli attimi. La sensazione di una disfatta incombente, il lieve crepitìo dell'aria, quella tensione palpabile a livello della nuca, quel nodo al petto degno del Necchi che ti dice che sta per succedere qualcosa, che i binari della storia, della nostra esistenza, sono arrivati ad un bivio.
L'ora delle fascistissime decisioni irrevocabili, direbbe qualcuno. In realtà: l'ora in cui la piega del tempo prende una sua quantistica lunghezza d'onda. Oscilla un po', e si stabilizza.
Io soffro dello stesso disturbo. La chiamo, assai poco originalmente: una perturbazione nella forza.
La avverto proprio, la sera prima di addormentarmi o la mattina al risveglio. Sento che qualcosa nel tessuto dello spaziotempo non è in ordine, che ci saranno scosse di assestamento, che si dovrà fronteggiare una grande oscurità che minaccerà di schiacciare quello che abbiamo faticosamente costruito.
Ineluttabile.
E puntualmente arriva.
Arrivò anche per lui, e prese una piega peregrina.
Quel giorno, più tardi, nel pomeriggio, la tonnara umana ed equina che era il campo di Moint-St.-Jean fece oscillare le sorti di svariati esseri umani, i destini ruzzolarono come i dadi di Cesare. La funzione d'onda oscillò tra i suoi minimi e i suoi massimi. Ed infine si stabilizzò: testa o croce, vita o morte, tutto o nulla.
Ma non è questo che oggi ci interessa. Non gli esiti del destino beffardo, non le strade che ci è dato inforcare. Non il bivio in sè di un'esistenza che può essere: miserrima. O peggio.
E' l'attesa del bivio.
Io comprendo il piccolo còrso. Sono simpatetico ai suoi stati d'animo. Anch'io come lui sono emotivo, l'ansia mi rattrappisce lo stomaco, mi viene l'ulcera quando sento il gelido soffio del caso aleggiare sarcastico sulla mia schiena. C'è un lasso di tempo tra questa sensazione e l'azione, e l'esito che le cose prenderanno.
Un magra attesa.
Ed è questo che ci interessa oggi. L'attesa, per chi non sa attendere, è una tortura.
Chi scrive è strutturato male: non è programmato per attendere. Chi scrive è un egocentrico manipolatore, abituato ad avere sempre sotto controllo le cose. Certo, c'è il caso di gestirle male, ma la consapevolezza che il proprio destino dipenda da noi stessi è consolante.
Aspettare che succeda qualcosa, che le cose migliorino o peggiorino, è come la tortura del piano inclinato. Un solo secondo sembrano mille anni.
Il còrso, prima della definitiva disfatta in quella mattanza ondivaga, non sèppe aspettare. Risolse, dopo poco che si era levato dal giaciglio, di attaccar briga con l'irlandese. Da uomo pragmatico e di polso qual'era, era l'unica cosa che potesse fare. Aspettare cosa? Avrà pensato. Già che sòn sveglio, meglio finirla subito qui. Fiato ai cannoni, nella bruma dell'aurora, e che si viva o si muoia nel tentativo di farlo.
E qui entrò in gioco uno dei tanti imprevisti che il fato, quello antropomorfizzato dei greci, mette da sempre tra le ruote delle nostre vicende umane. Un vulcano che erutta, una gran nube di cenere, un'estate piovosa, e la mattina del 18 giugno del 1815 le artiglierie si impantanano, non funzionano, si deve attendere mezzogiorno per poterle utilizzare.
E l'attesa diventa l'unica soluzione.
Ecco: quando attendere diventa l'unica opzione che abbiamo, cosa si fa?
Io non ne ho idea. Nel mio piccolo: languo. Vegeto, lèggo il Tirreno, bevo birra e faccio passare i giorni tutti uguali, cercando di conservare in me, ben visibile, l'obiettivo che mi pongo. Aspetta, mi dico, attendi, non puoi fare altro. Prima o poi il vento girerà, e dovrai essere pronto a varcare il fiume, entrare ad Orleans e scacciare l'inglese dal sacro suolo di Francia.
Certo, se ti chiami Jeanne D'Arc e hai il favore di Dio, il vento gira non appena lo richiedi. Ma se ti chiami Jeanne D'Arc c'è anche il caso che il favore di Dio ti conduca, una volta esauriti i tuoi sacri compiti, sul rogo. Questo succede perchè l'Onnisaccente chiama sempre a sè i suoi prediletti.
Sono contento di essere devoto a Yog-Sototh.
Per i comuni terrestri come noi, comunque, l'attesa può durare una quantità di tempo indefinito. E naturalmente, mentre si aspetta non si può fare altro che aspettare: tautologico ma esatto.
Attendere è un'arte talmente raffinata che qualcuno ne ha fatto la sua fortuna: è il caso di Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, ovvero "il Temporeggiatore".
Per farvela breve, acciocchè non venga accusato di essere prolisso, il nostro Temporeggiatore doveva fronteggiare l'esercito invincibile (o almeno così pareva) di Annibale Barca. Optò per non fare nulla. Dato che Annibale era insuperabile in campo aperto, l'unica scelta saggia era non affrontarlo. E mentre il cartaginese metteva a ferro e fuoco l'Italia e il senato si incazzava, Quinto Fabio Massimo si grattava le verruche e se ne sbatteva allegramente, attendendo che la cosa si risolvesse da sè.
Va da sè che dopo un po' il senato lo obbligò a prendere le armi e scagliare i suoi uomini contro gli elefanti punici, pena una grandinata di nòcchini.
Il Cunctator fece spallucce, disse "Come volete", guidò l'esercito in campo aperto e venne sbaragliato. Questo convinse finalmente i vecchi bacucchi di Roma che in effetti il console non aveva poi tutti i torti a voler attendere, e la storia si rimise in cammino con l'esito che tutti noi conosciamo: il Barca fece il gradasso ancora per qualche anno, bullandosi dei suoi pachidermi, ma alla fine Cartago venne delenda e sulle sue macerie venne sparso anche il sale, a monito perenne che non si fanno girare i coglioni a chi è più tenace e vendicativo di te.
Con tutti questi episodi storici, degni di History Channel, che voglio dire?
Che attendere, come tutte le cose, non è nè positivo nè negativo in sè. E' una cosa che capita di dover fare o che scegliamo di fare noi stessi. Ma è essenziale saper attendere. E' molto importante imparare a farlo, sia che ci capiti per i capricci del caso, sia che ci venga imposto dal nostro Io.
Io non ho mai imparato, ma ci sto provando, con grande difficoltà. Non è nelle mie corde, è come cercare di insegnare ad una mucca a scendere le scale.
Quando aspetto il bus mi incazzo: intrappolato nella marmaglia di plebe, accendo una sigaretta ed ecco che il camionaccio giallo fa la sua strombazzante comparsa dal mondo del traffico.
Quando aspetto il treno c'è sempre qualche avversa condizione meteo, tipo pioggiaevvento, a sommarsi al ritardo e all'incomodo dei vagoni pieni zipilli di neGri.
Quando aspetto che i casi della vita prendano un esito favorevole per le mie bèghe vengo puntualmente disilluso.
Quando aspetto in generale sono a disagio, fremo, vorrei attaccar briga, cedo alle lusinghe dell'azione. E spesso rischio di sbagliare, di rovinare con un gesto avventato tante cose che ho sapientemente costruito... mi mangio il fegato e mi addormento male, svegliandomi peggio.
Non imparo mai niente, questo è un dato di fatto.
O meglio, quasi niente, dato che qualcosa in fin dei conti sto imparando: non sempre le cose lasciate a loro stesse tendono a peggiorare. Non sempre agire, in un senso o nell'altro, è buona cosa. Come ci insegnano i buddisti, l'inazione può essere un pregio. Poi loro, da bravi religiosi, vanno un po' oltre, e sbagliano, ma tant'è...
E, cosa assai rilevante, oserei dire centrale: nell'attesa non si deve essere passivi.
Mai.
C'è sempre qualcosa da fare. Prepararsi, raccogliere informazioni, tenersi pronti. Tenere sempre ben presente ciò che si vuol raggiungere, la nostra mèta, il nostro bivio, e cercare di essere pronti ad inforcare la strada giusta non appena si verificherà l'occasione propizia. Duro compito poterla riconoscere, questa occasione. Ma c'è, statene certi.
Farsi trasportare, nell'attesa di un'estate migliore, dalle vane migrazioni del caso, dalle transitorie disposizioni dei nostri sensi, può farci smarrire la rètta via, distoglierci da quello che realmente vogliamo, e farci accontentare di questa attesa insulsa, che diventa un'unica ragione di vita.
Ci si abitua ad aspettare. Che le cose vadano meglio, che gli altri ci amino o ci odino, che succeda qualcosa senza che l'abbiamo richiesta. E così ci facciamo piacere ciò che non ci piace. E così ci facciamo scegliere invece di scegliere noi stessi.
Ça c'est pathetique.
Un giorno sarà troppo tardi per rimpiangerlo.
Io da parte mia aspetto. Aspetto che il vento giri.
Aspetto che il terreno si secchi.
Ma a mezzogiorno, tre colpi d'artiglieria risuoneranno nitidi, ad indicare che la pazienza è finita, e che si va allo sbaraglio.
Con lo stesso animo del còrso, sapendo di andare magari incontro ad una fine ingloriosa.
Ma, perdìo, almeno una fine che ci siamo scelti.
E se sarà Sant'Elena, almeno sarà un posto caldo e soleggiato in cui passare il resto della vita.

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