Sì, almeno credo di sì, credo fermamente che si possa raccontare un pò di tutto, avendone la voglia e l'inclinazione naturale: anche un bel prato verde partendo da una fredda rotaja.
Lasciandosi Claudio il benzinajo alle spalle, si entra in Valacchia.
Almeno questa è l'impressione.
Sulla sinistra, un'occhiata fugace che rischia di farmi schiantare sul furgone carico di stronzi targati A.S. (Pallavolisti? Calciatori? Criceti?) che mi sorpassa a mille all'ora: un macabro residuato vegetale, un abete vecchio e rincoglionito a cui è stata tranciata via la testa, pelato e secco, una grottesca ripetizione dell'albero della cuccagna, carica di nulla. E già ti aspetti, sotto quel cielo plumbeo (immagine inflazionata) che un Vojvoda feroce e sanguinario vi conduca alla rovina e al pubblico ludibrio decine di turchi, di azab, di spahi, catturati per le pendici dei colli e destinati all'impiccagione, sempre pei colli glabri e mal lavati.
La luce è primordiale, la strada una via affettata di vedere tutto, sussiegosa, altera e sbilenca nel suo peregrinare.
Si sale e si scende, attenti ai lupi, attenti alle cariche di akinji che cercano di stanare fieri transilvani dalle pendici dei monti.
Poi, com'è come non è, è come andare a Nord, anche se ci dirigiamo a Ovest, il sole basso negli occhi che si sdoppia nelle nuvole a formare un'orifiamma a forma di clessidra.
Dio lo maledica.
Andando a Nord si scolletta, e il paesaggio cambia.
Un sorriso che squarcia il velo tetro delle nubi, il sorriso del Soldano di Bisanzio cantato da Chesterton, quello che insanguinava la foresta della sua barba, e gli eroi dei balcani diventano fantasmi.
Si arriva in Slovenia. La boscaglia dopo Monte Lupo (di rumena memoria) declina in una più nordica e serafica foresta slovena, carsica e pneumatica.
Un camion di fronte a me mi rammenta di quando, lì sì davvero girovagando per il carso, mi trovai, assieme alla mia ineffabile navigatrice, stampato dietro un TIR in salita, la peggiore delle condizioni per chi cerchi di viaggiare senza ritardi, francobollato al suo retrotreno su di un'erta che tagliava -senza neppure lasciare la cicatrice- tutta l'Istria, scivolando tra albero e albero, tra una baita e una scuola deserta.
Nove lune mi ci sono volute per sorpassarlo, in quella strada larga come i fianchi di una dodicenne. Non lo rifarò. Mai più.
Ma dopo Monte Lupo la strada è larga, si sfreccia via senza accorgersene, e il bisonte della strada resta dietro di noi mentre posso contemplare alberi: radi, e nuvole: sfilacciate.
Gli alberi vanno in cenere, l'aria fredda diventa più calda.
L'ennesimo passaggio di tunnel mi regala un nuovo cambio di paesaggio.
Come quando passi da Genova, e da un tunnel all'altro non piove più, anzi, esce un sole palermitano, per poi restituirti -il tunnel seguente- la stessa livida scrosciata d'acqua che ricordavi.
Ecco le dolci colline del Sussex, la bella campagna d'Inghilterra, con la sua aria congelata, la luce polare, il clima felicemente mite quando non piove, e le colline che dolci si montano l'un l'altra, liberando all'aria il più bel verde che si possa immaginare dopo quello d'Erin.
Qui purtroppo il verde non c'è. Non ce n'è molto, almeno, anche se mi sembra -a costo della seconda sbandata- di vedere un vecchio lord attraversare un campo, nei pressi di uno scannafosso, con la doppietta aperta sottobraccio e il setter di cent'anni, macchia fulva e guizzante blandamente controluce che trotterella tra i suoi piedi e l'orizzonte a cavallo della collina, felice come solo un cane che caccia il fagiano e si scioglie nel sole.
Ci sono campi di mais, però, campi sterminati, secchi alla luce che si nasconde dietro le prime alture, che restituiscono il loro raccolto a chi l'ha partorito. E mi devo fermare, mentre Renan mi canta le sue radici, per cercare le mie.
Riparto attraversando le tumulilande, dove tornano vivide le impressioni di qualcosa di antico, fantasmi sospirati fuori dalla terra arata, cumuli verdi nel piatto niente che promettono tesori e maledizioni, a cui non è saggio avvicinarsi (ce lo ricorda Aragorn) e arrivo a uno stralcio di civilizzazione da ignorare, che mi chiede il pedaggio, il guiderdone, la decima.
Dai a Cesare ciò che Cesare userà per costruire le arterie del suo Impero, e passa oltre.
Cambia quella bella sensazione di comodità. La sensazione di una parte da protagonista in questa piccola guerra umana lascia spazio alla familiarità dell'essere in una gabbia di comando.
Le colline azzurre, sull'estremo occidente della terra di mezzo, dimora dei nani dei monti, nella tranquillità tra il mare e le pianure di Brea e della Contea.
Tant'è quello che si staglia ai miei occhi: il blu elettrico di monti carichi di metallo, scavati al loro interno da generazioni di bipedi affrettati, con la più bella pianura del mondo srotolata ai loro piedi come il tappeto dell'Aga Khan a ritorno dalla campagna d'Europa. E più lontano: il mare, che scintilla senza molta convinzione al sole che ormai se ne è andato, che si agita inquieto come nei miei sogni illuminato da un cielo scuro e minaccioso.
Mentre passo via, veloce come una cambiale in scadenza, e sfreccio ignorando volutamente i limiti, mi accolgono gli scoppi degli eterni fuochi d'artificio delle palme sulla mia sinistra.
Bentornato a casa, bentornato per restarci.
E così mi sento: come un pesciolino che nuota nella sua vecchia palla di vetro, cercandone un altro.
E così mi sento di dire: che -in ultima analisi- i posti sono sempre gli stessi.
Come le persone.
Cambiano le prospettive e le sfumature, alla fine è tutto una questione di luce e di volontà.
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