giovedì 26 luglio 2012

Le temps des ronins



“Io non ho mai avuto qualità straordinarie. Effettivamente… ho fatto molta esperienza, perdendo tutte le battaglie in cui mi sono trovato. Perciò è meglio che ti cerchi un altro maestro. Uno che non sia stato sfortunato e modesto come me.”
Kambei Shimada


La condizione del ronin è la peggiore. E' deplorevole per due motivi. Il primo: un samurai che ha perso la fiducia e la stima del suo padrone, tanto da farsi allontanare dal suo seguito, non merita la stima dei suoi pari. Il secondo: un samurai che non si è tolto onorevolmente la vita, seguendo il suo padrone nella morte, non vive secondo le regole del bushido ed è degno di disprezzo.
Il ronin è un individuo pragmatico e idealista al tempo stesso, quindi: privo del fanatismo cieco che portò molti samurai ad immolarsi inutilmente (come sosteneva pure Tsunetomo) ma sempre in possesso di quella dignità e di quell'etica che gli impedisce di servire un altro padrone.
Il ronin sceglie la strada più difficile: la solitudine. Solo tra altri ronin, disprezzato dai samurai e temuto dai contadini.
E' l'onda che vaga senza meta, talvolta seminando terrore, talvolta difendendo i deboli e gli oppressi.
In definitiva, per vederlo con un'ottica occidentale, il ronin sta al samurai un po' come i cavalieri erranti stanno al templare o al cavaliere cortese. I ronin e i cavalieri erranti sono i vinti, gli sconfitti, quelli che non hanno protettori, che non hanno scopi, ideali, ma che vivono la loro vita in una perenne cerca, giorno per giorno, ricordando con nostalgia ciò che fu.
La condizione del ronin è la peggiore.
Io, tra samurai e ronin, preferisco questi ultimi.
Come preferisco i cavalieri erranti.
Nella loro disperazione vedo una preparazione alla sofferenza quasi stoica, una disposizione d'animo più umana. Più coraggiosa, se vogliamo. Un modo di scontare vivendo, parafrasando Ungaretti, le loro colpe o la loro sfortuna.
Kambei Shimada è il simbolo di una generazione di magnifici perdenti. Ha perso tutte le battaglie, non eccelle in nessuna arte: non è un formidabile spadaccino come Kyuzo né un grande arciere come Gorobei, non è appassionato come Kikuchiyo né giovane come Katsushiro. O allegro come Heihachi. E' onesto, mite, generoso e simpatico. Capace di prendere decisioni e sopportarne il peso, decisioni che si rivelano quasi sempre giuste. E' pratico, pragmatico, ma non esita ad imbarcarsi in un'impresa suicida per una ciotola di riso.
Anche se credo che l'abbia fatto perché, in definitiva, non aveva di meglio da fare.
Non vuole discepoli, convinto di non aver molto da insegnare, è un uomo che non appartiene al suo tempo, un tempo fatto di spacconi e violenti, di gente che si stima più del giusto e di bischeri che sopravvalutano il primo che sventola una spada al vento. Un tempo di bricconi egoisti (come i contadini) e di egoisti bricconi (come i briganti). Nel mezzo: i ronin, le onde che vagano, indifferenti all'umana fortuna e geneticamente portati alla sconfitta.
La sconfitta è un concetto interessante in effetti.
De Coubertin, che in questi giorni va forte, fece dell'etica della sconfitta la bandiera dei giochi olimpici.
Charlie Brown una volta si sentì dire che le sconfitte insegnano molto più delle vittorie. Rispose, alterato: “Questo fa di me la persona più colta del mondo!”.
E' vero. Charlie Brown è molto più saggio dei suoi coetanei. Come saggio è Kambei.
Le vittorie rendono supponenti e superficiali, ottenere quello che si desidera con facilità non ci rende forse peggiori, ma neppure ci nobilita l'animo.
Le belle ragazze amano solo divertirsi, si diceva negli anni settanta. Ed è forse falso? Se l'affermazione vi suona sessista, sostituite ragazze con ragazzi e non tediatemi con le vostre fisime, ve ne prego. Non è aria.
Molti penseranno che in effetti esagero, che queste sono solo le parole di un deluso che non riesce ad appartenere alla classe dei vincenti. Allora mi chiedo per quale motivo proviamo una immediata e spontanea simpatia per tutti i perdenti del mondo? Don Chisciotte, Paperino, la nazionale di calcio delle Far Oer, perchè l'etica dell'eterno secondo ci fa muovere ad estemporanea commozione?
Ci rivediamo in loro? Oppure in loro vediamo qualcosa che nei cosiddetti vincenti non c'è e che vorremmo tanto avere, quella nobiltà d'animo che spesso occhi meno allenati confondono con la spocchia che trasuda dai gradassi?
C'è un sottile filo rosso che lega i ronin, Charlie Brown, Paperino e l'ingegnoso hidalgo, passando per i rivoluzionari falliti.
E' una canzone.
Si chiama “Le temps des cerises”. Ascoltatela: è molto bella. E' una canzone popolare francese del diciannovesimo secolo, ed è stata riproposta in più versioni da decine di cantanti.
A me piace quella di Trenet, ma dato che oggi sono in buona vi concedo di ascoltare quella che più vi aggrada.
E' una canzone un po' triste, che parla di quel che succede al tempo delle ciliege, del tempo che passa, dell'amore che non torna e della sconfitta. Parla del dolore e dell'incapacità a rinunciarvi. Se voi avete paura delle tristezze dell'amore, non avvicinatevi alle belle ragazze. Ma io che non ne ho paura, io mai passerò un giorno senza soffrire. Più o meno, una traduzione a braccio e a memoria: il senso è quello.
E' stata scritta da un toppone innamorato, direte voi, ed è giusto: bravi Sherlocks.
Ma è stata scritta in un momento particolare, pochi anni prima della comune di Parigi, ai tempi degli scontri, della rivoluzione, delle battaglie perse e dei bagni di sangue, e ne è diventata immediatamente il simbolo e l'inno. Il parallelismo tra le rivoluzioni fallite e gli amori finiti d'altronde è quasi automatico. E lo stesso Clement, l'autore delle parole, pare l'avesse dedicata ad una ragazza morta negli scontri del 1871, durante la “semaine sanglante”.
Datemi del toppone, non mi offendo, ma trovo tutto questo molto dolce ed adeguato, nella sua semplicità, nella sua coerenza e nella sua storia.
Questa canzone inizia ad essere il nostro fil rouge nel 1871 e finisce di esserlo nel 1992, quando diventa la colonna sonora di un film di animazione tra i più belli che siano mai stati prodotti.
E manco a dirlo, è l'ennesima storia di un rivoluzionario sconfitto e innamorato, di un perdente al cubo, di un ronin comunardo che combatte da solo e senza speranza contro la dittatura e contro sé stesso.
Parlo per chi non lo sapesse di Kurenai no Buta, Porco Rosso.
Se non l'avete visto fatelo o non godrete mai più della mia stima.
Marco Pagott, “Porco Rosso”, è il perdente per antonomasia, lo sconfitto per eccellenza. E' talmente diverso dai suoi contemporanei, dalla gente che lo circonda, da essere un maiale. Un maiale che vola, perché un maiale che non vola è soltanto un maiale. Un maiale rivoltoso, sprezzante dell'autorità costituita e delle consuetudini sociali: “Meglio maiale che fascista”.
Un maiale che non si decide mai a scegliere, che rimanda le decisioni anche più personali e intime e poltrisce bevendo vino, che non è interessato a quello che fanno intorno a lui.
Ama, forse, riamato pure. Ma anche questo sembra non avere molta presa sul suo carattere: ama senza ambizione, questo è certo. E perde tutto, continuamente, con una leggerezza ed una grazia del tutto particolari ed ammirevoli, pur battendosi fino in fondo per ciò che crede e, una volta sul punto di ottener la vittoria: rinunciarvi.
Ed alla fine lo invidiamo pure un po'. E ci piace.
Pur essendo un porco, pur essendo squattrinato e fallito: ci piace.
Perché ci piace la sua etica, il suo bushido.
Impossibile non innamorarsi del maialino volante.
E qui torniamo ai fallimenti.
Ma qui, proprio sul finale, il discorso si fa fumoso e sconnesso, quasi incoerente.
Perché ho sempre creduto che le cose più belle della vita fossero le nostre vittorie. Quei momenti in cui abbiamo avuto ciò che volevamo. Quei momenti in cui abbiamo saputo con certezza quello che volevamo. Quei momenti in cui ci siamo presi con decisione e fatica quello che volevamo. O anche quei momenti in cui quello che volevamo ci è caduto dal cielo, così, senza sforzo.
Poi sono invecchiato, e m'è presa la malinconia. Ed ho pensato che forse, le cose più belle della nostra vita sono proprio i nostri fallimenti. Quando abbiamo combattuto con tutte le nostre forze contro il destino, contro ostacoli insormontabili, andando a scontrarci con la dura realtà, soffrendo e reagendo e arrendendoci con dignità. Usando stratagemmi meschini o perdendo definitivamente le staffe. In realtà, mi dicevo, ci ricordiamo delle nostre sconfitte con quasi un velo di nostalgia, come se il tempo le rendesse meno amare. Ancor più delle vittorie, sono le sconfitte che ci caratterizzano, che fanno di noi quel che siamo e, cosa ancor più importante, le vittorie sono effimere, mentre le sconfitte durano tutta la vita e nessuno ce le potrà mai togliere.
E poi, una volta compiuto il trentaduesimo anno di vita, ho riconsiderato il significato stesso di sconfitta. E mi sono reso conto che l'importante non è cosa ottieni e per quanto, ma come. Che la cosa che conta davvero è la tua considerazione di te, del tuo codice morale, la coerenza del tuo bushido: tendere, come diceva Marco Aurelio, naturalmente a fare il bene, ad essere giusti, a ricercare il bello. Questo fa la differenza tra avere ed essere, come diceva Fromm, tra la vittoria e la sconfitta.
Ci sono persone che ottengono qualcosa senza vincere e persone che perdono tutto pur riuscendo a trionfare.

E ho scoperto anche che, in fondo in fondo, il bello della vita è lamentarsi.

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