“Io non ho mai avuto qualità
straordinarie. Effettivamente… ho fatto molta esperienza, perdendo
tutte le battaglie in cui mi sono trovato. Perciò è meglio che ti
cerchi un altro maestro. Uno che non sia stato sfortunato e modesto
come me.”
Kambei Shimada
La condizione del ronin è la peggiore.
E' deplorevole per due motivi. Il primo: un samurai che ha perso la
fiducia e la stima del suo padrone, tanto da farsi allontanare dal
suo seguito, non merita la stima dei suoi pari. Il secondo: un
samurai che non si è tolto onorevolmente la vita, seguendo il suo
padrone nella morte, non vive secondo le regole del bushido ed è
degno di disprezzo.
Il ronin è un individuo pragmatico e
idealista al tempo stesso, quindi: privo del fanatismo cieco che
portò molti samurai ad immolarsi inutilmente (come sosteneva pure
Tsunetomo) ma sempre in possesso di quella dignità e di quell'etica
che gli impedisce di servire un altro padrone.
Il ronin sceglie la strada più
difficile: la solitudine. Solo tra altri ronin, disprezzato dai
samurai e temuto dai contadini.
E' l'onda che vaga senza meta, talvolta
seminando terrore, talvolta difendendo i deboli e gli oppressi.
In definitiva, per vederlo con
un'ottica occidentale, il ronin sta al samurai un po' come i
cavalieri erranti stanno al templare o al cavaliere cortese. I ronin
e i cavalieri erranti sono i vinti, gli sconfitti, quelli che non
hanno protettori, che non hanno scopi, ideali, ma che vivono la loro
vita in una perenne cerca, giorno per giorno, ricordando con
nostalgia ciò che fu.
La condizione del ronin è la peggiore.
Io, tra samurai e ronin, preferisco
questi ultimi.
Come preferisco i cavalieri erranti.
Nella loro disperazione vedo una
preparazione alla sofferenza quasi stoica, una disposizione d'animo
più umana. Più coraggiosa, se vogliamo. Un modo di scontare
vivendo, parafrasando Ungaretti, le loro colpe o la loro sfortuna.
Kambei Shimada è il simbolo di una
generazione di magnifici perdenti. Ha perso tutte le battaglie, non
eccelle in nessuna arte: non è un formidabile spadaccino come Kyuzo
né un grande arciere come Gorobei, non è appassionato come
Kikuchiyo né giovane come Katsushiro. O allegro come Heihachi. E'
onesto, mite, generoso e simpatico. Capace di prendere decisioni e
sopportarne il peso, decisioni che si rivelano quasi sempre giuste.
E' pratico, pragmatico, ma non esita ad imbarcarsi in un'impresa
suicida per una ciotola di riso.
Anche se credo che l'abbia fatto
perché, in definitiva, non aveva di meglio da fare.
Non vuole discepoli, convinto di non
aver molto da insegnare, è un uomo che non appartiene al suo tempo,
un tempo fatto di spacconi e violenti, di gente che si stima più del
giusto e di bischeri che sopravvalutano il primo che sventola una
spada al vento. Un tempo di bricconi egoisti (come i contadini) e di
egoisti bricconi (come i briganti). Nel mezzo: i ronin, le onde che
vagano, indifferenti all'umana fortuna e geneticamente portati alla
sconfitta.
La sconfitta è un concetto
interessante in effetti.
De Coubertin, che in questi giorni va
forte, fece dell'etica della sconfitta la bandiera dei giochi
olimpici.
Charlie Brown una volta si sentì dire
che le sconfitte insegnano molto più delle vittorie. Rispose,
alterato: “Questo fa di me la persona più colta del mondo!”.
E' vero. Charlie Brown è molto più
saggio dei suoi coetanei. Come saggio è Kambei.
Le vittorie rendono supponenti e
superficiali, ottenere quello che si desidera con facilità non ci
rende forse peggiori, ma neppure ci nobilita l'animo.
Le belle ragazze amano solo divertirsi,
si diceva negli anni settanta. Ed è forse falso? Se l'affermazione
vi suona sessista, sostituite ragazze con ragazzi e non tediatemi con
le vostre fisime, ve ne prego. Non è aria.
Molti penseranno che in effetti
esagero, che queste sono solo le parole di un deluso che non riesce
ad appartenere alla classe dei vincenti. Allora mi chiedo per quale
motivo proviamo una immediata e spontanea simpatia per tutti i
perdenti del mondo? Don Chisciotte, Paperino, la nazionale di calcio
delle Far Oer, perchè l'etica dell'eterno secondo ci fa muovere ad
estemporanea commozione?
Ci rivediamo in loro? Oppure in loro
vediamo qualcosa che nei cosiddetti vincenti non c'è e che vorremmo
tanto avere, quella nobiltà d'animo che spesso occhi meno allenati
confondono con la spocchia che trasuda dai gradassi?
C'è un sottile filo rosso che lega i
ronin, Charlie Brown, Paperino e l'ingegnoso hidalgo, passando per i
rivoluzionari falliti.
E' una canzone.
Si chiama “Le temps des cerises”.
Ascoltatela: è molto bella. E' una canzone popolare francese del
diciannovesimo secolo, ed è stata riproposta in più versioni da
decine di cantanti.
A me piace quella di Trenet, ma dato
che oggi sono in buona vi concedo di ascoltare quella che più vi
aggrada.
E' una canzone un po' triste, che parla
di quel che succede al tempo delle ciliege, del tempo che passa,
dell'amore che non torna e della sconfitta. Parla del dolore e
dell'incapacità a rinunciarvi. Se voi avete paura delle tristezze
dell'amore, non avvicinatevi alle belle ragazze. Ma io che non ne ho
paura, io mai passerò un giorno senza soffrire. Più o meno, una
traduzione a braccio e a memoria: il senso è quello.
E' stata scritta da un toppone
innamorato, direte voi, ed è giusto: bravi Sherlocks.
Ma è stata scritta in un momento
particolare, pochi anni prima della comune di Parigi, ai tempi degli
scontri, della rivoluzione, delle battaglie perse e dei bagni di
sangue, e ne è diventata immediatamente il simbolo e l'inno. Il
parallelismo tra le rivoluzioni fallite e gli amori finiti d'altronde
è quasi automatico. E lo stesso Clement, l'autore delle parole, pare
l'avesse dedicata ad una ragazza morta negli scontri del 1871,
durante la “semaine sanglante”.
Datemi del toppone, non mi offendo, ma
trovo tutto questo molto dolce ed adeguato, nella sua semplicità,
nella sua coerenza e nella sua storia.
Questa canzone inizia ad essere il
nostro fil rouge nel 1871 e finisce di esserlo nel 1992, quando
diventa la colonna sonora di un film di animazione tra i più belli
che siano mai stati prodotti.
E manco a dirlo, è l'ennesima storia
di un rivoluzionario sconfitto e innamorato, di un perdente al cubo,
di un ronin comunardo che combatte da solo e senza speranza contro la
dittatura e contro sé stesso.
Parlo per chi non lo sapesse di Kurenai
no Buta, Porco Rosso.
Se non l'avete visto fatelo o non
godrete mai più della mia stima.
Marco Pagott, “Porco Rosso”, è il
perdente per antonomasia, lo sconfitto per eccellenza. E' talmente
diverso dai suoi contemporanei, dalla gente che lo circonda, da
essere un maiale. Un maiale che vola, perché un maiale che non vola
è soltanto un maiale. Un maiale rivoltoso, sprezzante dell'autorità
costituita e delle consuetudini sociali: “Meglio maiale che
fascista”.
Un maiale che non si decide mai a
scegliere, che rimanda le decisioni anche più personali e intime e
poltrisce bevendo vino, che non è interessato a quello che fanno
intorno a lui.
Ama, forse, riamato pure. Ma anche
questo sembra non avere molta presa sul suo carattere: ama senza
ambizione, questo è certo. E perde tutto, continuamente, con una
leggerezza ed una grazia del tutto particolari ed ammirevoli, pur
battendosi fino in fondo per ciò che crede e, una volta sul punto di
ottener la vittoria: rinunciarvi.
Ed alla fine lo invidiamo pure un po'.
E ci piace.
Pur essendo un porco, pur essendo
squattrinato e fallito: ci piace.
Perché ci piace la sua etica, il suo
bushido.
Impossibile non innamorarsi del
maialino volante.
E qui torniamo ai fallimenti.
Ma qui, proprio sul finale, il discorso
si fa fumoso e sconnesso, quasi incoerente.
Perché ho sempre creduto che le cose
più belle della vita fossero le nostre vittorie. Quei momenti in cui
abbiamo avuto ciò che volevamo. Quei momenti in cui abbiamo saputo
con certezza quello che volevamo. Quei momenti in cui ci siamo presi
con decisione e fatica quello che volevamo. O anche quei momenti in
cui quello che volevamo ci è caduto dal cielo, così, senza sforzo.
Poi sono invecchiato, e m'è presa la
malinconia. Ed ho pensato che forse, le cose più belle della nostra
vita sono proprio i nostri fallimenti. Quando abbiamo combattuto con
tutte le nostre forze contro il destino, contro ostacoli
insormontabili, andando a scontrarci con la dura realtà, soffrendo e
reagendo e arrendendoci con dignità. Usando stratagemmi meschini o
perdendo definitivamente le staffe. In realtà, mi dicevo, ci
ricordiamo delle nostre sconfitte con quasi un velo di nostalgia,
come se il tempo le rendesse meno amare. Ancor più delle vittorie,
sono le sconfitte che ci caratterizzano, che fanno di noi quel che
siamo e, cosa ancor più importante, le vittorie sono effimere,
mentre le sconfitte durano tutta la vita e nessuno ce le potrà mai
togliere.
E poi, una volta compiuto il
trentaduesimo anno di vita, ho riconsiderato il significato stesso di
sconfitta. E mi sono reso conto che l'importante non è cosa ottieni
e per quanto, ma come. Che la cosa che conta davvero è la tua
considerazione di te, del tuo codice morale, la coerenza del tuo
bushido: tendere, come diceva Marco Aurelio, naturalmente a fare il
bene, ad essere giusti, a ricercare il bello. Questo fa la differenza
tra avere ed essere, come diceva Fromm, tra la vittoria e la
sconfitta.
Ci sono persone che ottengono qualcosa
senza vincere e persone che perdono tutto pur riuscendo a trionfare.
E ho scoperto anche che, in fondo in
fondo, il bello della vita è lamentarsi.
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