venerdì 27 luglio 2012

Survival of the meanest



Luglio sta per finire.
Questo mi fa venire a mente nell'ordine: il famoso console romano che cadde alle idi di marzo, una vecchia canzone estiva, un ristorante ormai chiuso e che nell'emisfero australe è inverno.
Qui no, qui è estate, i prati sono pieni di piccoli rampicanti dai fiori bianchi, le cicale friniscono e i cani vanno in giro con la lingua penzoloni. I turisti zampettano allegri, pur non sciamando come gli anni addietro, con gli olandesi che non rispettano le precedenze, i tedeschi che viaggiano a centallora come se stessero contrattaccando sulla linea Gustav e gli inglesi che si infilano contromano pei viottoli.
Gli italiani, in questa particolare kermesse, si rivelano sempre i peggiori.
Cacofonici, scostanti e presuntuosi, scialbi e superficiali, ineducati e strafottenti.
In altri giorni mi sarei arrabbiato e mi sarei guastato il sangue, sbraitando come una muta di Husky all'indirizzo dei pratesi che parcheggiano nei passi carrabili, dei fiorentini che guastano i pomeriggi al mare, dei milanesi che intasano il traffico procedendo a passo d'uomo come se seguissero un corteo funebre. Mi avrebbero seccato assai tutti questi invasori patentati, che di solito si comportano come se fossero in vacanza e che considerano i luoghi di villeggiatura delle colonie d'oltremare dove tutto è lecito, senza considerare che in queste colonie ci sono persone autoctone che ci vivono tutto l'anno. Provateci voi, ad andare a Firenze o Milano a dieci all'ora in pieno centro, e vedrete cosa succederà.
Ma erano altri giorni, come ho già detto. Ora sono un uomo più mite, ho scoperto Gesoo e porgo l'altra guancia, e faccio come il Melandri: non mi arrabbio più.
Ne ho avuto la prova pochi secondi or sono.
Ve lo narro.
Stavo aspettando l'ora del desinare e giocavo con una certa qual soddisfazione a World of goo per ingannare l'attesa. Avevo appena sbloccato l'asse Z e la terza dimensione e mi accingevo a lanciare piccoli Goo digitali in orbita intorno ad un pianetino verdognolo quando una tromba squillante come quella che fece crollare le mura di Gerico mi ha riscosso dal torpore.
Era un CAMIOS,”guidato da qualche cafone moldavo” ho razzisticamente pensato. Invece boh, non so chi lo guidasse ma aveva ragione a strombazzare il suo disappunto.
Sotto alla mia magione era parcheggiata una motocarrozza a scoppio. Era parcheggiata così: abbandonata senza neppure le canoniche quattro frecce, in mezzo alla carreggiata dell'Aurelia. Contromano. In mezzo alla strada. In prossimità di una curva.
Praticamente, roba da fucilazione immediata senza benda e senza sigaretta.
Intorno alla suddetta vettura il traffico si trombizzava, ovviamente, dato che la presenza dell'ingombro abusivo costringeva gli automobilisti a perniciose quanto azzardate manovre di evasione che interessavano la corsia opposta, in un gioco di schivate e finte degno dei duelli del Barone Rosso.
Ho provato un lieve fastidio e la tentazione di scendere, così, d'amblè, a dirne quattro all'incauta posteggiatrice, ma poi mi sono trattenuto e mi sono limitato a mandare una silenziosa maledizione all'indirizzo del di lei treno di gomme.
Non nascondo che sono rimasto alla finestra per vedere se qualcuno più iroso del sottoscritto avrebbe risolto per farsi una giustizia privata di Bronsoniana memoria, ma non è successo nulla, e la signorina è uscita dal negozio con tutta calma dopo un quarto d'ora buono, ben tranquilla, ed ha ripreso il transito della sua esistenza.
Considerazione: sopravvive il più adatto.
Corollario: il più adatto è colui che manifesta di avere le doti migliori per sopravvivere in una data situazione.
Obiezione: così si entra in un circolo tautologico.
Sempre ragionando con me stesso, che mi ci trovo bene e di solito evito in questo modo discussioni snervanti e capziose o fraintendimenti, ho deliberato che si doveva dare un'adeguata definizione, aggiornata a venerdì pomeriggio del concetto Darwiniano di sopravvivenza del più adatto.
Chi è il più adatto?
Primo esempio: sopravvive il più semplice. D'altronde, in tutti i sistemi, le cose tendono a organizzarsi secondo la configurazione più semplice e col minor dispendio di energia. Perché noi dovremmo essere da meno? Chi ha meno pensieri, quelli che vanno in giro col maglioncino legato in vita e gli occhiali da sole infilati tra i capelli per non far venire la congiuntivite alle mèsce, si incontreranno, si riconosceranno al volo e si riprodurranno e faranno tanti piccoli esserini che assomiglieranno in tutto a babbo. Oppure assomiglieranno a Gimmi, ma tanto anche Gimmi sarà dello stesso calibro del babbo putativo, quindi poco male.
Secondo esempio: sopravvive il più puccioso. Ho preso in prestito il termine dallo slèng di noi giovani. Ad esempio, il fasmide gigante, una simpatica bestiolina innocua e con la passione per il bridge e i film con David Bowie, sta per estinguersi nell'indifferenza generalizzata. Questo perché il fasmide gigante è -a onor del vero- piuttosto ripugnante e non interessa a nessuno. Se avesse avuto il musetto puccioso di un gattino o di un cagnolino probabilmente la Brambilla si sarebbe incatenata alle rocce di qualche isoletta del Pacifico del Sud e noi ci saremmo liberati in un colpo solo del problema del fasmide e della di lei presenza.
Corollario: sopravvive anche quello con il sapore migliore. Quando una razza ha un sapore particolarmente buono la si alleva e se ne preserva in qualche modo la continuità. Questo è il motivo per cui la faraona esiste sempre mentre il dodo no.
Terzo esempio: sopravvive il più stronzo. A volte essere alti non basta. Come ci insegna Dawkins, in un gruppo di rane minacciate da un serpente sopravvivono quelle capaci di salti più adeguati e precisi, dotate di maggior fortuna e che si fanno meno scrupoli a spingere le compagne tra le fauci dell'ofide. Per noi è lo stesso. Di solito un'indole vendicativa e rancorosa è di grande aiuto per la corsa alla sopravvivenza. Ricordare per secoli un'offesa, e tramandarne il ricordo ai posteri, come fanno ad esempio i giapponesi, può funzionare da meccanismo di prevenzione e fare in modo che tale offesa non si ripeta. Facciamo un esempio. Mettiamo che un tal Cencetti mi abbia creato un qualche incomodo, ad esempio parcheggiando l'auto sul mio vialetto, trombandomi la moglie o tentando di avvelenarmi contaminando il mio cibo con elevate concentrazioni di cadmio. In questi casi biasimevoli, non solo l'immediata recisione delle principali arterie del sig. Cencetti gli impedirà nell'immediato di reiterare il suo sconsiderato comportamento (oltre a procurarci -ammettiamolo pure- una certa soddisfazione), ma la perpetuazione dell'odio nei confronti del suo discutibile patrimonio genetico permetterà altresì alla nostra progenie di guardarsi nei secoli a venire da quella stirpe bacata che sono i Cencetti, sempre pronti a qualche malefatta ai nostri danni.
In questo particolare caso, quello della sopravvivenza del più cattivo, c'è da considerare anche il fatto che più la cattiveria si affina più si fa efficace, fino ad arrivare al punto di essere completamente ed incontroveritibilmente sicura e garantita al limone nel suo successo.
Io per esempio ho cercato di tutelarmi in questo senso.
Posto il fatto che non si può pretendere di essere contemporaneamente buoni ed equilibrati, o si rischia di trovarsi a piangere sopra le centrifughe, ho deciso di sviluppare quelle caratteristiche di cui la natura mi ha dotato. Caratteristiche che, come sa chi mi conosce, non riguardano le forza bruta o l'altezza, né la capacità di correre veloce o la possibilità di far sfoggio di una particolare avvenenza.
Certo, ho il mio fascino alla Empri Bogart, ma al giorno d'oggi viene confuso con quello alla Vudi Allen e allora sòn cazzi.
Per questo ho imparato a sparare dritto e sono diventato un discreto tiratore, col tempo, fedele al motto “Da quando hanno inventato la polvere da sparo siamo tutti grossi uguale.” Ma non bastava. Quindi ho appreso qualche rudimento di lotta corpo a corpo, ma per via delle limitazioni appena discusse in fatto di stazza e di ferocia non mi sentivo ancora sicuro. Ho imparato allora a maneggiare una spada, che anche se è demodè non si sa mai.
Ma sono ben lungi dal diventare una pucciosa macchina da guerra. Per questo negli ultimi mesi mi sono impegnato in un nuovo campo di ricerca, che promette molto bene.
La sopravvivenza è una cosa importante, e quindi non starò certo qui a dire a voi, che siete tutti potenziali concorrenti per la mia particolare pozza d'acqua, come intendo arrivare all'abbeverata.
In fin dei conti, ognuno fa quel che può e usa le proprie armi. L'inquisizione spagnola ha dalla sua la sorpresa, la paura, una devozione fanatica per il papa e delle bellissime uniformi rosse. La tigre dai denti a sciabola ha i denti a sciabola. Il topo la capacità di riprodursi a sproposito e senza un minimo di coinvolgimento emotivo. Gli spacconi la loro faccia tosta e l'ingenuità del prossimo. E così via.
Come diceva Ailander: ne rimarrà soltanto uno.
Ma tenete sempre di conto che di solito quello che resta è un infingardo assassino e spregioso, quindi state attenti al prossimo.
Sopravvive il più adatto. Sopravvive il più cattivo.
Una persona cattiva è in grado di portare rancore, come abbiamo detto, per secoli. E di forarvi tutte e quattro le ruote della vettura.
Una persona cattiva come Martin Bormann ve le farà squarciare dalla Gestapo.
Ma una persona veramente cattiva potrebbe convincervi a tagliarvele da soli.


giovedì 26 luglio 2012

Le temps des ronins



“Io non ho mai avuto qualità straordinarie. Effettivamente… ho fatto molta esperienza, perdendo tutte le battaglie in cui mi sono trovato. Perciò è meglio che ti cerchi un altro maestro. Uno che non sia stato sfortunato e modesto come me.”
Kambei Shimada


La condizione del ronin è la peggiore. E' deplorevole per due motivi. Il primo: un samurai che ha perso la fiducia e la stima del suo padrone, tanto da farsi allontanare dal suo seguito, non merita la stima dei suoi pari. Il secondo: un samurai che non si è tolto onorevolmente la vita, seguendo il suo padrone nella morte, non vive secondo le regole del bushido ed è degno di disprezzo.
Il ronin è un individuo pragmatico e idealista al tempo stesso, quindi: privo del fanatismo cieco che portò molti samurai ad immolarsi inutilmente (come sosteneva pure Tsunetomo) ma sempre in possesso di quella dignità e di quell'etica che gli impedisce di servire un altro padrone.
Il ronin sceglie la strada più difficile: la solitudine. Solo tra altri ronin, disprezzato dai samurai e temuto dai contadini.
E' l'onda che vaga senza meta, talvolta seminando terrore, talvolta difendendo i deboli e gli oppressi.
In definitiva, per vederlo con un'ottica occidentale, il ronin sta al samurai un po' come i cavalieri erranti stanno al templare o al cavaliere cortese. I ronin e i cavalieri erranti sono i vinti, gli sconfitti, quelli che non hanno protettori, che non hanno scopi, ideali, ma che vivono la loro vita in una perenne cerca, giorno per giorno, ricordando con nostalgia ciò che fu.
La condizione del ronin è la peggiore.
Io, tra samurai e ronin, preferisco questi ultimi.
Come preferisco i cavalieri erranti.
Nella loro disperazione vedo una preparazione alla sofferenza quasi stoica, una disposizione d'animo più umana. Più coraggiosa, se vogliamo. Un modo di scontare vivendo, parafrasando Ungaretti, le loro colpe o la loro sfortuna.
Kambei Shimada è il simbolo di una generazione di magnifici perdenti. Ha perso tutte le battaglie, non eccelle in nessuna arte: non è un formidabile spadaccino come Kyuzo né un grande arciere come Gorobei, non è appassionato come Kikuchiyo né giovane come Katsushiro. O allegro come Heihachi. E' onesto, mite, generoso e simpatico. Capace di prendere decisioni e sopportarne il peso, decisioni che si rivelano quasi sempre giuste. E' pratico, pragmatico, ma non esita ad imbarcarsi in un'impresa suicida per una ciotola di riso.
Anche se credo che l'abbia fatto perché, in definitiva, non aveva di meglio da fare.
Non vuole discepoli, convinto di non aver molto da insegnare, è un uomo che non appartiene al suo tempo, un tempo fatto di spacconi e violenti, di gente che si stima più del giusto e di bischeri che sopravvalutano il primo che sventola una spada al vento. Un tempo di bricconi egoisti (come i contadini) e di egoisti bricconi (come i briganti). Nel mezzo: i ronin, le onde che vagano, indifferenti all'umana fortuna e geneticamente portati alla sconfitta.
La sconfitta è un concetto interessante in effetti.
De Coubertin, che in questi giorni va forte, fece dell'etica della sconfitta la bandiera dei giochi olimpici.
Charlie Brown una volta si sentì dire che le sconfitte insegnano molto più delle vittorie. Rispose, alterato: “Questo fa di me la persona più colta del mondo!”.
E' vero. Charlie Brown è molto più saggio dei suoi coetanei. Come saggio è Kambei.
Le vittorie rendono supponenti e superficiali, ottenere quello che si desidera con facilità non ci rende forse peggiori, ma neppure ci nobilita l'animo.
Le belle ragazze amano solo divertirsi, si diceva negli anni settanta. Ed è forse falso? Se l'affermazione vi suona sessista, sostituite ragazze con ragazzi e non tediatemi con le vostre fisime, ve ne prego. Non è aria.
Molti penseranno che in effetti esagero, che queste sono solo le parole di un deluso che non riesce ad appartenere alla classe dei vincenti. Allora mi chiedo per quale motivo proviamo una immediata e spontanea simpatia per tutti i perdenti del mondo? Don Chisciotte, Paperino, la nazionale di calcio delle Far Oer, perchè l'etica dell'eterno secondo ci fa muovere ad estemporanea commozione?
Ci rivediamo in loro? Oppure in loro vediamo qualcosa che nei cosiddetti vincenti non c'è e che vorremmo tanto avere, quella nobiltà d'animo che spesso occhi meno allenati confondono con la spocchia che trasuda dai gradassi?
C'è un sottile filo rosso che lega i ronin, Charlie Brown, Paperino e l'ingegnoso hidalgo, passando per i rivoluzionari falliti.
E' una canzone.
Si chiama “Le temps des cerises”. Ascoltatela: è molto bella. E' una canzone popolare francese del diciannovesimo secolo, ed è stata riproposta in più versioni da decine di cantanti.
A me piace quella di Trenet, ma dato che oggi sono in buona vi concedo di ascoltare quella che più vi aggrada.
E' una canzone un po' triste, che parla di quel che succede al tempo delle ciliege, del tempo che passa, dell'amore che non torna e della sconfitta. Parla del dolore e dell'incapacità a rinunciarvi. Se voi avete paura delle tristezze dell'amore, non avvicinatevi alle belle ragazze. Ma io che non ne ho paura, io mai passerò un giorno senza soffrire. Più o meno, una traduzione a braccio e a memoria: il senso è quello.
E' stata scritta da un toppone innamorato, direte voi, ed è giusto: bravi Sherlocks.
Ma è stata scritta in un momento particolare, pochi anni prima della comune di Parigi, ai tempi degli scontri, della rivoluzione, delle battaglie perse e dei bagni di sangue, e ne è diventata immediatamente il simbolo e l'inno. Il parallelismo tra le rivoluzioni fallite e gli amori finiti d'altronde è quasi automatico. E lo stesso Clement, l'autore delle parole, pare l'avesse dedicata ad una ragazza morta negli scontri del 1871, durante la “semaine sanglante”.
Datemi del toppone, non mi offendo, ma trovo tutto questo molto dolce ed adeguato, nella sua semplicità, nella sua coerenza e nella sua storia.
Questa canzone inizia ad essere il nostro fil rouge nel 1871 e finisce di esserlo nel 1992, quando diventa la colonna sonora di un film di animazione tra i più belli che siano mai stati prodotti.
E manco a dirlo, è l'ennesima storia di un rivoluzionario sconfitto e innamorato, di un perdente al cubo, di un ronin comunardo che combatte da solo e senza speranza contro la dittatura e contro sé stesso.
Parlo per chi non lo sapesse di Kurenai no Buta, Porco Rosso.
Se non l'avete visto fatelo o non godrete mai più della mia stima.
Marco Pagott, “Porco Rosso”, è il perdente per antonomasia, lo sconfitto per eccellenza. E' talmente diverso dai suoi contemporanei, dalla gente che lo circonda, da essere un maiale. Un maiale che vola, perché un maiale che non vola è soltanto un maiale. Un maiale rivoltoso, sprezzante dell'autorità costituita e delle consuetudini sociali: “Meglio maiale che fascista”.
Un maiale che non si decide mai a scegliere, che rimanda le decisioni anche più personali e intime e poltrisce bevendo vino, che non è interessato a quello che fanno intorno a lui.
Ama, forse, riamato pure. Ma anche questo sembra non avere molta presa sul suo carattere: ama senza ambizione, questo è certo. E perde tutto, continuamente, con una leggerezza ed una grazia del tutto particolari ed ammirevoli, pur battendosi fino in fondo per ciò che crede e, una volta sul punto di ottener la vittoria: rinunciarvi.
Ed alla fine lo invidiamo pure un po'. E ci piace.
Pur essendo un porco, pur essendo squattrinato e fallito: ci piace.
Perché ci piace la sua etica, il suo bushido.
Impossibile non innamorarsi del maialino volante.
E qui torniamo ai fallimenti.
Ma qui, proprio sul finale, il discorso si fa fumoso e sconnesso, quasi incoerente.
Perché ho sempre creduto che le cose più belle della vita fossero le nostre vittorie. Quei momenti in cui abbiamo avuto ciò che volevamo. Quei momenti in cui abbiamo saputo con certezza quello che volevamo. Quei momenti in cui ci siamo presi con decisione e fatica quello che volevamo. O anche quei momenti in cui quello che volevamo ci è caduto dal cielo, così, senza sforzo.
Poi sono invecchiato, e m'è presa la malinconia. Ed ho pensato che forse, le cose più belle della nostra vita sono proprio i nostri fallimenti. Quando abbiamo combattuto con tutte le nostre forze contro il destino, contro ostacoli insormontabili, andando a scontrarci con la dura realtà, soffrendo e reagendo e arrendendoci con dignità. Usando stratagemmi meschini o perdendo definitivamente le staffe. In realtà, mi dicevo, ci ricordiamo delle nostre sconfitte con quasi un velo di nostalgia, come se il tempo le rendesse meno amare. Ancor più delle vittorie, sono le sconfitte che ci caratterizzano, che fanno di noi quel che siamo e, cosa ancor più importante, le vittorie sono effimere, mentre le sconfitte durano tutta la vita e nessuno ce le potrà mai togliere.
E poi, una volta compiuto il trentaduesimo anno di vita, ho riconsiderato il significato stesso di sconfitta. E mi sono reso conto che l'importante non è cosa ottieni e per quanto, ma come. Che la cosa che conta davvero è la tua considerazione di te, del tuo codice morale, la coerenza del tuo bushido: tendere, come diceva Marco Aurelio, naturalmente a fare il bene, ad essere giusti, a ricercare il bello. Questo fa la differenza tra avere ed essere, come diceva Fromm, tra la vittoria e la sconfitta.
Ci sono persone che ottengono qualcosa senza vincere e persone che perdono tutto pur riuscendo a trionfare.

E ho scoperto anche che, in fondo in fondo, il bello della vita è lamentarsi.

mercoledì 18 luglio 2012

Deus le volt! (credo)





Corre l'anno domini 1096, è un marzo tenue e un po' vigliacco, ed un uomo cavalca a dorso di mulo. Percorre la Francia, attraversando le contee del Berry, di Normandia, dello Champagne. Si inoltra fin in Renania e scolletta in terra alemanna giungendo alla ricca città di Colonia.
L'uomo si chiama Pietro, detto L'Eremita. E' una specie di monaco, un predicatore straccione, dotato di grande forza d'animo e della testa più dura di quella del suo mulo. So come la state pensando, ma non è un complimento.
Pietro vaga per l'europa carico di fervore cristiano, cattolico, apostolico e romano. Praticamente è pieno di piscio e vento, direbbe Will Scarlet, l'allegro compagno della foresta di Sherwood.
Ma cosa dice Pietro, dalla groppa del suo ciuchino? Un grido che scuote l'europa intera, un grido che farà piombare due civiltà antiche ed egualmente nobili e degne in una guerra che si protrarrà per secoli. Una guerra della quale molto spesso faranno le spese i poveri e i civili, come sempre, a centinaia, a migliaia, a milioni. Trucidati, squartati, violentati e derubati.
Ma Dio lo vuole, chi siamo noi per dubitare e giudicare?
Il fatto è che il suddetto Pietro, una volta si recò a pregare a Gerusalemme, che era stata occupata dagli arabi. Ciò nonostante i pellegrini potevano entrare e uscire a loro piacimento, badate bene, e pregare tutti gli dei che volevano. Avrei voluto vedere un mamelucco entrare impunemente a Parigi e stendere il tappeto per la Salat senza che nessuno gli dicesse niente. Tanto per mettere i puntini sulle i. Ma torniamo al nostro Pietro, che si inginocchia, prega e inizia a sentire le voci.
Piccola digressione: se un uomo sente le voci nel termosifone, è matto e gli facciamo un TSO. Se un uomo sente le voci in chiesa è santo e lo facciamo beato.
Tanto per mettere i puntini eccetera. Fine della digressione.
Pietro sente le voci, la voce di Dio dirà lui, che gli ordina di ammazzare tutti gli infedeli e riportare il Santo Sepolcro nelle mani dei cristiani. Ora, io nutro dei dubbi piuttosto forti sul fatto che un'entità potenzialmente onniscente e onnipotente si debba servire di uno straccioncello come Pietro per divulgare un messaggio. E nutro dubbi anche sul fatto che tale entità sia così piccosa nel voler consegnare una città ad un popolo piuttosto che all'altro: fosse stata questa la sua volontà avrebbe già provveduto affinchè la storia camminasse da sola in quella direzione. Ma questi dubbi non sfiorano né Pietro né quei coglioni che lo seguono. Perchè difatti Pietro, di ritorno da Gerusalemme, monta per l'appunto sul ciuco, dove l'abbiamo trovato, e inizia a urlare come un forsennato per le strade delle città, affermando che "Deus le volt!", cioè in un pessimo latino che Dio lo vuole! Vuole cosa? Ma che si vada a scucir quanche pancia d'infedele, che diamine! Ora, di solito ci si aspetterebbe che il popolino, già vessato da tasse e povertà di per sè, ad una richiesta del genere risponda con un fitto lancio di pietre e di bucce di cocomero sulla chierica del briccone psicopatico. E invece no: la massa di ignorantelli abbocca all'amo e tripudia onori e allori al monachello. Viva Pietro! Abbasso il Saladino (ancora non c'era)! A Gerusilemme! Dio lo vòle!
Per farla breve, in qualche mesetto di peregrinaggio Pietro L'Eremita raccoglie una cospicua cifra di straccioni sotto il suo labaro, mentre la prima crociata "ufficiale", quella indetta da papa Urbano II a Clermònt, si sta appena iniziando a pianificare. Pietro non aspetta: è convinto di riuscire a liberare il santo sepolcro da solo. E fa partire la spedizione: qualche decina di migliaia di derelitti, armati di bastoni, accette, coltellacci e buona volontà (se buona si può definire la volontà d'andare in terra altrui a sbudellar pacifici sconosciuti) e vestiti come capita, un po' come l'Armir in Russia. Al comando del contingente c'è anche un nobilotto, tale Gualtieri Senz'Averi, nomen omen e ho detto tutto. Difficile che questa plebaglia possa impensierire i mamelucchi del sultano, ma tant'è.
Le due colonne, quella al comando di Gualtieri e quella al comando di Pietro, partono scaglionate per raggiungere via terra ortodossa la terra santa. Prima il Gualtieri, e dopo l'Eremita.
Dopo qualche giorno, ci si accorge che la pianificazione logistica dell'impresa è stata fatta coi piedi, e dato che la gente inizia ad aver fame e che Dio stavolta la manna dal cielo pare intenzionato a non concederla, ci si abbandona al saccheggio delle città Bizantine che si trovan per la via.
L'imperatore di Bisanzio la cosa non la prende bene, e a più riprese manda l'esercito romeo a strigliare gli indisciplinati crociati. E per quanto cerchi, il basileo, di tenere un profilo tollerante per non inimicarsi troppo i latini in vista dell'arrivo della vera crociata, quella di Goffredo di Buglione, e tenga a freno la voglia di sbudellare tutti quanti questi straccioni senza ritegno e civiltà, bè, dopo il sacco di Belgrado perde definitivamente le staffe e fa trucidare qualche migliaia di franchi e germani dal governatore della vicina piazzaforte di Nic.
I pellegrini rimasti, assai male in arnese, vengono poi traghettati a pedate nel coccige al di là dei dardanelli, di modo che si possano dirigere verso la Siria e la Palestina senza più molestare l'Impero. Però  essi nicchiano, e preferiscono saccheggiare Nicea, città turca che non c'entrava nulla con gli egiziani e i siriani che governavano le terre santissime. Ma si vede che Deus voleva anche quello. Il sacco frutta diversi dindini al contingenete francese e alimenta le invidie di quello tedesco, che vuole ripetere l'esperimento. A loro però va meno bene, dato che stavolta il sultano di Rum non si fa prendere di sorpresa e attende al varco il ritorno di quella manica di pezzenti.
Li trucida tutti. Almeno, tutti quelli che non si convertono all'islam.
Fine della crociata dei poveri. E Pietro l'Eremita, ovviamente, si salva. Fedele al detto "armiamoci e partite" era rimasto per tutto il tempo a farneticare in quel di Bisanzio, per la gioia dei romei. Si unirà poi alla Prima Crociata, durante la quale dimostrerà tutta la sua stabilità mentale.
Giunto ad Antiochia, infatti, cercherà improvvisamente di fuggire per tornarsene a casuccia sua, e verrà riagguantato per la collottola dai crociati (quelli veri, ben armati e cattivi). Dopo la caduta di Gerusalemme terrà un sermone sconclusionato sul Monte degli Olivi, sermone seguito da uno spietato saccheggio durante il quale tutti gli abitanti della Città Santa, ortodossi, ebrei, arabi e anche cristiani, vengono sventrati senza distinzione dalle sante armate con la croce rossa. Ma lo voleva Dio, c'è poco da fare. Infine, di ritorno in Belgio, il vecchio truffatore avrà pure il tempo di fondare un bel monastero nel quale chiudersi per passare in letizia gli ultimi suoi giorni.
Fine della storia.

Ora, perchè vi ho raccontato questo? Per un semplice motivo che vi vado tosto a spiegare.
Ci sono cose di cui non si parla, perchè è maleducazione. O almeno così ci hanno sempre detto. Mai parlare di politica, mai parlare di malattie, meno che mai di tumori maligni, mai parlare di morte e mai parlare di religione. Corollario: mai far notare a qualcuno i suoi stupidi errori, è più educato educarne l'ignoranza e farla ingigantire come natura vuole.
Se si contravviene a questi principi, ecco che ci si guadagna la taccia di irrispettosi e maleducati, e che la gente si arrabbia.
Ma io non sono un gentleman, e scherzo un po' con chi mi pare e piace, siano fanti o santi, e chi non gli va bene può andare tranquillamente in culo. Quindi mi accingo a violare uno dei precetti sacri cui ho accennato prima, nei seguenti termini: chi crede nelle baggianate scritte in un sedicente libro sacro scritto migliaia di anni fa da un cialtrone in malafede è un povero coglione nella migliore delle ipotesi o un pazzo scriteriato nella peggiore. Gente così non va incoraggiata, sennò succedono cose come quella che vi ho appena raccontato.
Potrei a questo punto farmi bello col racconto della teiera, ma non lo farò, e vi invito ad andare a cercarvelo da soli. Così magari scoprite chi era Bertrand Russel, che vi fa bene.
La pratica barbara di battezzare i bambini è una cialtronata senza scuse, inflitta sul capo di persone che non possono ancora parlare per mandarvi a fare in culo voi e i preti, ma che se potessero lo farebbero ben volentieri. Così come è una pratica barbara l'indottrinamento di giovani virgulti, potenzialmente intelligenti, con storie di Sodome e Gomorre, di angeli custodi, di divinità che ci spiano di continuo e di madonnine che piangono se ci facciamo le seghe. Certo, ai bambini si racconta anche di Babbo Natale. Ma poi a una certa età gli si spiega anche che non esiste. Sarebbe il caso di fare lo stesso con la favola di Gesoo Bambino e degli angioletti, o rischiamo di allevare una generazione di adulti che credono nelle creature alate che bevono il caffè sopra le nuvole, nell'omeopatia, nella cristalloterapia e nell'astrologia.
Dirò pure che i preti sono tutti in malafede, e che anche chi dice aver credere in qualche dio lo è. Perchè se ci credeste davvero, cari i miei buzzurri, andreste in chiesa tutte le domeniche mattine, evitereste di bestemmiare e di darla via come se non fosse vostra, e vivreste come Deus volt. Altro che discorsi. Allora cos'è? Superstizione? Come quando ci si mette il corno rosso in tasca o si evita di passare sotto le scale? Malafede? Paura di morire? Scegliete voi, ma non ammorbateci più con queste baggianate retrograde.
Siamo nel terzo millennio, le scoperte scientifiche vanno avanti e siamo sempre più consapevoli di com'è fatto l'universo e di come funziona. Prendete la storia del Bosone di Higgs. Se la maggior parte di voi non ci ha capito nulla non preoccupatevi: è normale. E' difficile la meccanica quantistica. Ma cristo di un dio, per restare in tema, con un po' di sforzo ci si arriva. Lo so che è più facile leggere la bibbia di QED di Feynman, ma per lo meno provateci.
Che tutta qui sta la solfa.
La facilità.
La gente vuole le cose facili. Relazioni facili, ragazze facili, discorsi facili, vita facile, soldi facili e concetti facili. Puttanelle che la elargiscono al primo che passa, cazzoncelli con la camiciola aperta sul petto tosato, coglionciotti che parlano di Juventus e Ferrari.
Anatema e disprezzo. Questa è la gente che poi preferisce credere a una qualche divinità pur di togliersi la fatica e la responsabilità. "Ah non lo so se c'è dio" dice il cretino di turno, per cavarsi d'impaccio "magari non è quello della bibbia ma qualcosa c'è".
Spiegami perchè e come. Avanti. Convincimi. Convincimi che non è solo un modo di salvare capra e cavoli, un concetto di dio fatto su misura per tutti, per non pensare e non essere responsabili e non doversi al contempo adeguare a precetti fastidiosi.
Troppo comodo cari cialtroncelli.
Il punto sta tutto qui e lo ripeterò: religioni e governi si basano sullo stesso concetto. Ovvero che voi siate dei bambini che credono in Babbo Natale e che siate troppo piccoli per essere responsabili di voi stessi. Da qui, le proibizioni: non rubare, non fornicare, non bestemmiare. O andrai all'inferno. Mettiti la cintura, non fare il bagno con la banidera rossa, non sederti sui gradini. O ti faccio la multa. Stessa roba. E c'è chi se la beve passivamente, nato pecora com'è e abituato alla vita da pollo in gabbia. Rinunciamo alla nostra libertà ogni giorno, perchè la libertà è poter essere responsabili di ciò che facciamo e pagarne le conseguenze SE succede qualcosa, e responsabilità vuol dire avere senso critico. La vera lotta non la dovremmo fare contro le guerre o la povertà, non per la libertà ma per avere la responsabilità. Ricordatevelo bene.
Da parte mia, io bestemmio, rubo, picchio i bambini e mi drogo (ho sentito dire "ti amo"?). Passo sotto le scale, saluto i gatti neri e mi siedo come tredicesimo a tavola. Me ne sbatto del concetto di divinità, non me ne faccio di nulla. Come di quello di spiritualità. Trappole per allocchi. E' già tutto abbastanza complicato così com'è, e non esistono energie cosmiche, vibrazioni dell'anima, armonie dello spirito.
Non esistono cori gospel in grado di convincermi, con un paio di gorgheggi, che Dio abita in questo tafanario. Ed è proprio così che stanno le cose. Ciò che è falsificabile, ci insegna Popper, è scientifico e dimostrabile. Ciò che non lo è appartiene alla metafisica, e la metafisica non è scienza: è cialtroneria.
E che ci crediate o no, non esistono teiere in orbita attorno a Marte.

martedì 17 luglio 2012

Le Misanthrope, ovvero: di ladri e di puttane.



"Cosa ci vai a fa' fòri, che ci sono solo i ladri e le puttane?"
"Appunto, mamma. Esco."
(dialogo tra Bob Rondels e su' madre)

Io sono un irresponsabile. Un cialtrone. Scostante, perdigiorno, incoerente e schivo. Sono piccoso fino alla testardaggine, pieno di fisime e di preconcetti e di solito ce l'ho con tutto e tutti così, un po' come un pescecane che deve sempre nuotare per non morire affogato. Ecco, se fossi più amabile mi strozzerei. Non è colpa mia: mi hanno disegnato così, ma questa in fondo è la scusa di tutti, si potrebbe dire lo stesso anche di Itle. Solo che a differenza del buon Re di Germania io non ho nulla di cui scusarmi. Mai fatto male a una mosca, io. Sono solo un idealista della vecchia guardia, come il guascone col nasone o il caro Alceste, innamorato di qualche Célimène, deluso dai tanti Filinte, che alla fine si troverà costretto a far la rotta per l'Islanda, ma è una costrizione in cui naufragar m'è dolce, molto dolce.
Questa è un po' l'introduzione ruffiana che anticipa il "ma". Come quelli che aprono i discorsi dicendo "Premetto che non sono razzista, ma" e di solito segue un'amenità del tipo "per me i neGri devano stà a ciondolà sotto le palme a Datteropoli".
Quelli che fanno così sòn peggio dei fascisti, perchè cercano di convincerti che non lo sono, mentre almeno i fascisti veri vanno in giro col fez e i pantaloni alla zuava e li riconosci subito. E' più facile prendere la mira.
Quindi ricomincio: io di solito sono misantropo per costituzione, però stavolta voglio fare una precisa scelta politica e delucidare ai più il perchè di tale misantropia. Magari qualcuno ci si rivedrà e storcerà il naso, magari a qualcuno non andrà giù quel che dico e non si troverà d'accordo. Affari loro, in ogni caso. Ma sono un po' stanco, ebbene sì, d'esser considerato un buffo ammennicolo, che fa il bastian contrario per burla e che ormai critica tutto e tutti per spocchia. Credetemi, sarei ben contento di non esserlo, quel Bastiano. Sarei ben felice di essere felice, non sono come quei coglioni che ricercano nevroticamente il dolore.
Ma veniamo al punto: io sto bene in compagnia dei ladri e delle puttane. Come Bobo Rondelli. Ci sto proprio bene con la feccia, ci sguazzo. Non ci fraternizzo troppo, questo no, ma quando sono in mezzo a certa gente mi sento in qualche modo rinfrancato. Ed il perchè è presto detto: perchè pur nella loro turpe moralità essi sono scevri di ipocrisia. Sono veri. Dei veri pezzi di merda, per carità, ma veri. I loro bisogni sono genuini, non filtrati dal consumo. Ti taglieranno la gola per un nichelino, ma per lo meno non useranno quel nichelino per comprarsi l'aifòn. Almeno non i tagliagole di una volta, quelli alla vecchia maniera.
Sono il simbolo dell'umanità primordiale, il mito del cattivo selvaggio, pulciosi sporchi e cattivi. Per questo amo i sottopassaggi, nelle città, così gremiti di quell'umanità borderline, di una corte dei miracoli composta da suonatori sdentati, mendicanti monchi, bande di graffitari mezzi fatti, immigrati che ràvanano nella nostra spazzatura, teppistelli fuoriusciti dai riformatori e tangheri espulsi dagli ospedali psichiatrici che si pisciano addosso ad ogni passo. Sono il sale della terra, credetemi.
E mi piace vedere la gente di sopra, quella che cammina in superficie e guarda le vetrine, che quando si trova nei sottopassaggi cambia espressione ed affretta il passo. Potessero, ci scenderebbero con la scorta. Le sbarbine ammutoliscono e si tappano le cosce, che fino a dieci minuti prima sfoggiavano con civettuolo orgoglio. Gli uomini d'affari fingono improbabili telefonate e si attaccano alla ventiquattrore. I bambini piangono e le suorine svengono. Va bene, forse sto esagerando, ma i sottopassaggi sono uno dei pochi luoghi al mondo dove la frase "Épater la bourgeoisie" ha ancora un profondo significato.
Sopra è tutto diverso. Sopra è il mondo del fare, del ciarlare, del comprare e del mostrare ciò che si è comprato. Sopra tutti sono belli, puliti, ordinati e usano a sproposito il piuttostoché. Bontà loro. E non parlo neppure di quei cialtroncelli scioperati che fanno finta di non aderire alla causa. Quelli coi rasta che picchiano sui bònghi (sì, ce l'ho con quelli che suonano i bonghi, o allora?), quelli che si sentono alternativi perchè hanno letto l'ultimo libro di Sepulveda o perchè frequentano l'Hemp Shop più vicino e quelli che solo perchè ascoltano la musica da Ippi e si mettano le magliette col simbolo della pace pensano di aver fatto abbastanza per rendere questo mondo meno orribile. Quelli sono i peggio di tutti: l'omeopatia civile dei mali sociali, la lotta di classe diluita 45 volte in acqua distillata per fare i ganzi alle feste studentesche. Non mi piacciono, col loro anticonformismo a marchio iso 9001, senza mai un guizzo di stile, una pensata intelligente, un po' di personalità, una molotov arronzata a qualche damerino. Date retta: infilarvi le piume nel culo non farà di voi galline. Fate come Marla Singer, lei almeno cerca di toccare il fondo.
Ma torniamo ai portatori sani di carta di credito.
Oggi vagavo un po' per Firenze. Città d'arte e storia. Come altre, beninteso, non che voglia fare l'apologia della Conca del Rinascimento. Ma indubbiamente qualcosa a Firenze c'è successo nei secoli addietro, e indubbiamente ci sono posti molto belli da vedere.
Quello che ho visto io: un tripudio di felloni che facevano shopping. Ovunque ti giri: negozi di vestiti. Scarpe. Vestiti. Borse. Vestiti. Eccheccazzo, mi veniva da pensare, ma davvero non c'è altro che interessi le persone? Davvero non pensano ad altro nella vita che a questo?
Ho visto una mamma (giovincella) con due fanfulini, còlta da improvvisa sindrome di Stendhal di fornte ad una vetrina di scarpe. Additava serafica un paio di calzature ai bimbi, magnificandone le forme e i colori. E i bimbi, rapiti, come di fronte ad un quadro del Canaletto, gli occhi colmi d'ammirazione, mentre bèlavano: "Belle mamma, io voglio quelle!".
Io ho pensato che queste parole, da piccolo, non mi sono mai uscite di bocca.
Poi ho fatto rotta verso una bancarella di libri usati, e per due euro mi sono comprato una bellissima prima edizione italiana de Il vecchio e il mare, con le illustrazioni a colori. Ecco, penso di aver detto tutto. Ora traetene pure voi le debite conclusioni. Credo che tutto questo qualcosa voglia dire. Per me è che le cose non sono mai come dovrebbero, ma spesso sono proprio come sembrano.
Per voi non so.