martedì 5 marzo 2013

Solo cibo pulito.


Oggi farò una metafora molto stupida e lunga, e pure un po' infantile e forzata.
Lo so, lo so... le semplificazioni di questi tempi vanno molto di moda e ci hanno pure rotto un po' le palle. Ma a volte bisogna saper comunicare qualcosa in modo molto semplice, e il difficile è farlo, tenere le cose semplici cioè, senza tralasciare i concetti importanti.
Io ci proverò, a beneficio di chi vuol leggere senza impegnarsi troppo, visto che oggi è pure una giornata di merda che sembra un giovedì.


Ecco.


Quando lavoravo come cameriere mi è capitato di ritrovarmi, una sera, in una situazione che oggi mi pare perfetta per spiegare il funzionamento della democrazia in tutte le sue forme. Dunque.
Era un sabato sera, il che vuol dire che il ristorante era pieno come un uovo, perchè erano ancora gli anni che c'era Lui e i ristoranti erano -appunto- pieni. L'ultimo tavolo libero era stato occupato da una nutrita comitivola di persone, tre coppie, che per le dimensioni del locale rappresentavano una piccola folla. Ovviamente, per accrescere le complicazioni, queste persone erano arrivate piuttosto in ritardo, circa alle nove e mezzo di sera, e si trattava pure di un gruppo eterogeneo di piccosi e lamentosi.
Insomma, i classici italiani al ristorante.
Una volta sistemate le formalità (pane e acqua) mi presentai a prendere l'ordinazione, ma mi resi subito conto che la faccenda avrebbe presentato diverse complicazioni. I sei avventori, difatti, richiesero primi e secondi piatti del tutto diversi l'uno dall'altro, cosicchè mi ritrovai in mano una comanda che prevedeva almeno 12 portate.
Quando scesi in cucina per poco il cuoco (giapponese) non mi passò a fil di lama, minacciando me e le mie generazioni future di morte se non avessi immediatamente ridotto quei tangheri a più miti pretese.
Tornai in sala e mi affrettai a spiegare, con paraculesca cortesia, le difficoltà della cucina (che non era grande come quella del Ritz e faceva solo servizio espresso) a soddisfare le loro richieste, e che se avessero insistito per avere le loro dodici portate avrebbero probabilmente dovuto aspettare per ore. Anche perchè, feci notare, erano arrivati per ultimi e avevano avanti a loro altri venti tavoli.
Le reazioni non furono amichevoli, e variarono da uno stupore sbigottito ed accuse di malagestione del pubblico servizio.
A nulla valse il mio evidenziare che -almeno per la sera in questione- non potevamo dotarci di una cucina più grande e che lor signori -che erano clienti abituali- ben conoscevano le dimensioni del locale e la sue capacità.
Dopo qualche furibonda contrattazione, i due più miti ospiti scesero a compromessi e si accordarono per prendere piatti uguali ad un terzo. Una signora invece, baciata da un intelletto non troppo acuto, semplicemente cambiò la sua ordinazione scegliendo due nuovi piatti. Totale: 10.
Ancora non c'eravamo, e io iniziavo a sudare freddo, sotto gli sguardi inquisitori della turba giacobina che mi fissava come fossi il Re Luigi.
Infatti, non appena feci presente che avrebbero dovuto limare ancora un filo l'ordinazione, fui investito da ondate di sdegno che comprendeva secoli e secoli di indignazione repressa dell'italico popolo contro le malvessazioni della classe dirigente bieca ed aguzzina.
La situazione diventava scivolosa e tragicomica come in un film di Fantozzi, e sostenere contemporaneamente gli interessi dei clienti e quelli del locale era sempre più impossibile.
Feci nuovamente appello al buonsenso, ma il buonsenso era andato a mangiare una pizza quella sera, e uno dei clienti, un arruffapopolo istrionico e minaccioso, agitando le mani come Saint Just quando rifilava uno dei suoi panegirici al popolino desideroso di ghigliottina, mi apostrofò dicendo che avrei a questo punto dovuto decidere io per loro cosa dovevano mangiare (condendo il tutto con borborigmi di èinauditismo, di nonmeramaisuccessismo e di èunavergognismo).
La contrattazione procedette sul filo di questa sottile lama di rasoio per alcuni minuti, e dopo quella furibonda Yalta riuscii, con non pochi sforzi di diplomazia, a ricavar una comanda di sette-otto piatti, che ancora era lontana dall'essere onesta ma che potevo comunque, con qualche forzatura e a rischio del mio scalpo, imporre al cuoco (giapponese) che era molto paziente ma armato.
Insomma, per farla breve, alla fine riuscimmo ad accontentare tutti (più o meno) e seppur obtorto collo lor signori mangiarono, bevvero e ruttarono anche se non smisero per un solo secondo di sbriciolarmi i coglioni per ogni sciocchezza, perchè ormai avevano il dente avvelenato.


Ecco.


Ora, i più scafati di voi avranno già notato i punti salienti della metafora, ma io desidero rimarcarli per chi non avesse capito il senso di questa mia narrazione.
La tavolata di pignoli irragionevoli è l'elettorato. Diviso, rissoso ed impaziente. In più: quello italiano è l'elettorato che è arrivato per ultimo al ristorante ma desidera essere servito prima degli altri.
La cucina, vedetela un po' come il governo, o se siete più internazionalisti, come la Commissione Europea. Quello c'è, quelle sono le risorse. Pestare i piedi non cambia la situazione.
Il cameriere, che ero io, è il rappresentante del popolo, il politico. Che è sì parte del sistema (ristorante) e membro del governo, ma che fa comunque gli interessi del popolo e che si fa portavoce delle sue richieste. E che cerca di convincere l'una parte e l'altra a trovare un accordo.
In un sistema democratico, quindi, ogni singolo cittadino avanza le sue richieste. Quando queste non possono essere soddisfatte, è inutile proseguire incaponendosi su posizioni di principio. Se la spigola è finita, arrabbiarsi non la farà comparire per magia nel piatto. E -in ogni caso- non si può avere tutto. Così come al ristorante non si possono scegliere 40 piatti diversi se siamo in 20, nella realtà non possiamo veder esaudite le richieste di TUTTI i membri della società (tagli alle tasse, lotta all'evasione, più soldi alla sanità, meno controllo fiscale, condono, ambiente, ricche pompe e cotillons varii)
Il tentativo di accordo, evidentemente, è l'unica via. Qualcuno, più malleabile o di gusti meno sceglini, deciderà per il bene comune di mangiare il risotto, come il suo commensale, piuttosto che la pastasciutta che gli faceva tanto gola.
Una volta giunti ad obbiettivi comuni e condivisi, si può mangiare. Se si resta divisi, invece, si fa la fame.
La tentazione -seppur palesemente provocatoria- di affidare al cameriere ogni potere decisionale ("allora ce lo dica lei, cosa dobbiamo mangiare") avrebbe sì risolto il problema anch'essa, ma non ci vuole molto per capire che demandare la sovranità nella sua interezza ad un Uomo Salvifico è piuttosto pericoloso, dato che i sei meschinacci avrebbero rischiato di trovarsi, per mio comodo, a mangiare pane e acqua e senza neppure rompere troppo i coglioni.


Ancora una piccola considerazione, però.


Se in questo scenario introduciamo la democrazia cosiddetta diretta possiamo prevedere due risultati.
Il primo, che comporta una votazione a maggioranza di ogni commensale sul piatto da ordinare, porterà tutti ad avere la stessa pietanza. La maggioranza ha deciso: stasera pasta. E se qualcuno è intollerante al glutine chissenefrega, non mangia.
Il secondo, prevede di sostituire il cameriere con un cliente.
Il cameriere costa, a che serve? Mandiamolo a casa!
E qui dunque il rappresentante del popolo sovrano scavalca la catena di comando e si presenta lui stesso in cucina con l'ordinazione, puntando i piedi e minacciando il cuoco (giapponese).
Mi limito a farvi notare però.
Che anche in questo caso il problema non si è risolto, e che se non si ricorre di nuovo alla contrattazione si resta comunque ed inesorabilmente col piatto vuoto, per quanto si urli e si gridi alla vergogna e all'ingiustizia.
E che molto probabilmente in questo caso il cuoco (giapponese) si incazzerà di brutto.

E non bisogna mai far incazzare chi maneggia il tuo cibo, se si vuole che sia pulito.

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