domenica 4 marzo 2012

L'écume des jours




"L'Enfer, c'est les autres."
(J.P. Sartre)


L'inferno, sono gli altri.
Può essere, nel bene o nel male può essere. Non per essere tacciati di faciloneria misantropa, che da quando c'è il dottor Casa è diventata un pregio anzichè una terribile tara, ma può essere. D'altronde anche Lacan identificava nell'Altro, con la maiuscola, che è importante, il simbolico: luogo dove l'inconscio opera, ripetendo senza resistenze. Ma questa è accademia, e la cattedra non mi si addice.
Certo è che l'Altro è luogo misterioso e pieno di insidie, dove la nostra coazione a ripetere, infima nevrosi compulsiva, si scontra con l'io e genera un mucchio di casini, rovinando così anche queste benedette relazioni con l'altrui locus. Di qui: l'enfer, c'est les autres. Un inferno che ci scegliamo e ci plasmiamo da soli, non in noi ma in chi ci circonda. Che la colpa sia nostra o di questa massa di superflui galoppini inconcludenti, il risultato non cambia: si soffre. Almeno qualcuno.
Io traggo giovamento da eventi celesti, stante il fatto che l'umanità mi repelle e io repello lei, come il famoso collare antipulci. Traggo giovamento da questi cieli azzurrini, tersi nella calda promessa di una primavera, nei quali all'ora del crepuscolo, al calar dello stellone, si possono vedere fermi come le luci di un posto di blocco della finanza, tre astri che i più cialtroni di voi avranno scambiato erroneamente per stelle e che stelle non sono, rifulgendo essi di luce riflessa.
A latere, con la faccia da mercante, sta il piccolo Mercurio, in mezzo (ma in mezzo rispetto a cosa?) Venere, bianca e splendente come un tiro di cavalli russi, e accanto ad essa, approfittando dell'assenza di Marte, che arriva la notte tardi come tutti i bècchi che si rispettino, il grasso e lubrico Giove, che in questi giorni inutili di marzo si avvicina lemme lemme a congiungersi con quel puttanone sidereo che è la Stella (impropriamente detta) del Mattino.
Insomma, un bel guazzabuglio celeste, e c'è da sperare che Mercurio non spifferi tutto a Marte, che arriva accompagnato da Saturno. Il quale -si sa- ha un pessimo carattere, e insomma tutto rischia di finire in una volgare gazzarra da osteria.
Qualcuno mi accuserà d'esser poco serio e attendibile, anche un po' infantile se vogliamo.
Sia, e allora?
Sempre meglio ch'esser musoni e pragmatici, come quegli individui che per fantasticare hanno bisogno delle illustrazioni e che subordinano le relazioni affettive al proprio ego e al proprio lavoro. Giovani (ma più spesso: vecchi) yuppies rampanti, anninovantissimi, in carriera, col telefonino che usano solo ed esclusivamente nei ritagli di tempo alla guida della motocarrozza, con la colf, il torneo di squash il giovedì e il filmetto di qualche registucolo radicalsnob da guardare in silenzio imbarazzante con la squinzia di turno.
Con la risposta sempre pronta, con le certezze e mai coi dubbi. Mai.
Mi fanno paura, a me, le persone senza dubbi, le persone sicure di sè. Quelle che non fallano mai. Come se fosse un pregio, la sicurezza.
Perchè da piccoli ci mandano a scuola. Ci insegnano le cose. Ci insegnano la filosofia, che a sedici anni non la capiamo. Ma quando studiamo Socrate ci piace, perchè sa di non sapere. Ci piace Schopenhauer, perchè oscilla tra la noia e la disperazione. Ci piace star male, lo spleen, il mettersi in discussione per crescere. Poi succede che il corpo ci cresce da sè. Non è un merito, come diceva Mafalda, parafrasando Quino, succede e basta. Non c'è onore, non c'è maturazione nella crescita. C'è solo l'appesantirsi di un corpo snello, l'incancrenirsi dei difetti, il perdere la voglia di confrontarsi. E la chiamiamo sicurezza, e c'è sempre qualcuno che crede sia un pregio e che ci casca.
Io sono come Bob Rondels, invece. Meglio non crescere mai. Se quelli maturi sono come Bruno Vespa, non voglio crescere mai. Se quelli maturi poi marciscono, non voglio crescere mai. Rimarrò così, acerbo, con la pancetta ma acerbo, pelato ma acerbo. D'altronde, come diceva Eraclito, tutto scorre. Perchè affannarsi a semplificare il lavoro all'entropia? Rendiamogli almeno la vita difficile.
Tutto scorre, certo, tutto cambia, le stagioni passano e ritornano. Da qui lo vedo bene, da questo scorcio bucolico. E' che ci hanno fregato.
Perchè se ci fermiamo a guardare, senza neppure dover fare troppa attenzione, salta all'occhio. Che dopo l'inverno, c'è di nuovo la primavera, foriera dell'estate bella e maledetta. E sarà sempre così. Perchè allora solo noi vogliamo fermarci nell'imbrunire della gelida stagione? Perchè mai dopo un duro inverno dell'anima non dovrebbe esserci una nuova, infantile, primavera? Tornare indietro viene sempre dipinto come un grosso errore quando è la natura stessa che lo fa ogni 365 giorni e qualche ora.
Quando arriva a un punto morto, semplicemente riparte da capo, dalla propria immarcescibile infanzia. Come un ripristino dopo un crash del sistema.
Qui sì, qui si vede bene.
Lo sbocciare dei piccoli fiori blu.

I primi fiori dell'anno sono tutti blu, che fosse questo che voleva dirci Queneau?
Api che ronzano tramortite nella caligine del primo mattino, formiche che riprendono le loro vie della seta, da Damasco al tiepido nido nel pino, ricci che escono dal letargo per saettare nottetempo incontro al destino pneumatico; tra poco ci saranno le farfalle e poi le lucciole, che non vedranno mai l'inverno.
Buon per loro.
E la mattina, il tappeto appena lavato di mia cugina spande odore di pulito per chilometri, mescolandosi, steso alla finestra, col profumo della terra. La salvia marcescente e rinsecchita emana un lieve odore di santità, come ti aspetteresti dalla salma di Lenin.
I bambini schiamazzano, saltandomi addosso, tirandomi per la giacca, in un profluvio di pulito e di sporco.
Sotto la pergola ho atteso, attorniato dal glicine odoroso, la mia vecchiaia. Affacciato su un nastro di strada lungo come un litorale, che segna il confine tra il porto e l'ignoto, attendevo promesse di navi cariche di spezie e di speranza. Su questa battigia s'è infranta la schiuma dei miei giorni, densa come solo una buona stout, olente di pelle al sole e di sale, di resina e di risate. La schiuma di un Vian senza tempo e senza jazz, con tanto di giovanotti nullafacenti, di cuochi, di topi parlanti e di fiori. Un schiuma interamente vera, perchè me la sono inventata e raccontata con passione.
E poi per il cammino dell'estate è arrivato l'inverno.

Sono cambiati gli odori, la pergola s'è fatta riparo dalla pioggia, ed io ormai vecchio ho atteso la mia giovinezza, di fascistissimo richiamo storico -d'accordo- ma di rivoluzionaria ontologia, come quella d'un imberbe gappista.

E adesso ritorna quello che Ungaretti chiamava uno scintillamento nuovo. Again and again. Sarà così anche quando non sarò più.

Nel frattempo, aspetto l'Altro, mon enfèr, dritto sul pontile, con lo sguardo eretto all'avvenire.

Fisso al sole nascente.

E adirato, ma solo un po', all'imbrunire.

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